Addio a Tom Regan, un filosofo contro le gabbie degli animali

di Luisella Battaglia - 27/02/2017
E' con profonda commozione e partecipazione che diffondiamo il seguente testo inviatoci dalla Professoressa Luisella Battaglia, ordinaria di Filosofia morale e di Bioetica all’Università di Genova e membro del Comitato Nazionale di Bioetica, aderente al Movimento Antispecista, che ringraziamo sentitamente. - Stefania Sarsini

Uno dei fenomeni più significativi di questi ultimi decenni è stata la convergenza tra movimenti di riforma sociale (ambientalisti e animalisti) e riflessione filosofica: una convergenza che ha prodotto una sensibilizzazione crescente dell’opinione pubblica su tali temi e ha contribuito a sollevare interrogativi ineludibili circa la natura degli animali e il loro rapporto con l’uomo. 

 

Fino a che punto – ci si chiede - l’uomo ha il diritto di disporre della vita delle altre creature? Quali valori morali potrebbero configurare un corretto comportamento verso i non umani? 

 

Uno dei protagonisti della nuova etica interspecifica è stato certamente il filosofo nordamericano Tom Regan, scomparso a 79 anni il 17 febbraio, il cui testo più celebre I diritti animali (1983) è stato definito un <classico moderno> accanto alla Teoria della giustizia  di John Rawls e ad Anarchia, Stato, Utopia di Robert Nozick.

 

Il suo approccio radicale ha  rappresentato il tentativo più audace di estendere principi e norme valide nell’ambito dell’etica umana anche ai non umani, in nome di un’eguaglianza oltre i confini della specie. L’etica dei diritti animali richiede, infatti, un allargamento dei nostri orizzonti morali, una rimessa in questione di pratiche ritenute naturali e lecite ma che si rivelano, a una più attenta considerazione, forme di oppressione.

 

In tal modo s’intende porre fine al pregiudizio e alla discriminazione basati su un criterio—la specie—ritenuto arbitrario allo stesso modo della razza o del sesso. Tom Regan vede nei non umani dei ‘soggetti-di-vita’ il cui valore è irriducibile alla loro utilità: in questo quadro, ogni istituzione umana, volta allo sfruttamento degli animali (sperimentazione, allevamenti, etc.) deve considerarsi intrinsecamente immorale perché viola il loro diritto a essere trattati con  rispetto, riducendoli allo stato di semplici mezzi, di mere risorse. <Nessunoscrive —ha il diritto di trarre profitto dalla violazione dei diritti fondamentali di altri>.


L’ingiustizia di una pratica non può essere compensata da alcun beneficio: l’innocenza stessa degli animali e la millenaria oppressione di cui sono vittime costituisce un ulteriore elemento a loro favore. Una tesi, la sua, che sembra riecheggiare le parole di Schopenhauer che esigeva, per gli animali, rispetto, non pietà:<Che espressione! Si ha pietà di un peccatore, di un malfattore ma non di un innocente e fedele animale>.


Ricordo che nel 2001, durante una sua visita a Genova, –  la città sede nel 1986 del  primo Convegno Nazionale sui Diritti degli animali – aveva ribadito in un’intervista che essere per gli animali non significava in alcun modo essere contro l’uomo : “Ho speso gran parte della mia vita per difendere i diritti umani, specie dei soggetti più deboli, come i bambini, e di coloro che non hanno potere. Esigere che vengano trattati giustamente gli animali significa chiedere per loro né più né meno di quel che si chiede per qualsiasi essere umano: che sia trattato con giustizia”. In uno dei suoi ultimi libri. Gabbie vuote. La sfida dei diritti animali - un testo giudicato dal Premio Nobel J. M. Coetzee <una bruciante accusa circa il modo in cui trattiamo gli animali in un mondo che abbiamo costruito a nostro completo vantaggio> - demolisce, con argomentazioni assai persuasive, l’immagine negativa che i media danno dei difensori dei diritti degli animali, smascherando la retorica  del ‘trattamento umano’ sostenuta da chi li sfrutta nei più diversi contesti.


Per riprendere le sue parole, non si tratta di allargare le gabbie ma di abolirle in nome di quella regola aurea che ci chiede di trattare gli animali con lo stesso rispetto con cui vorremmo essere trattati noi stessi. <Un’idea genuinamente rivoluzionaria> l’ha definita Jeremy Rifkin.