Il ruolo del sindacato

di Francesco Baicchi - 05/11/2014

 Renzi ha ragione quando dichiara che il governo (cioè lui) non è tenuto a trattare con il sindacato, perché le leggi le fa il Parlamento: così dice la Costituzione (che però lui vuole cambiare).

Non ha tutti i torti nemmeno quando afferma che il sindacato dovrebbe ‘fare il suo mestiere’ e trattare essenzialmente con le imprese, interlocutore naturale.

Dimentica però che anche il capo del governo dovrebbe fare il suo mestiere di esecutore della volontà del Parlamento, titolare del potere legislativo, invece di imporre a colpi di fiducia gli accordi presi in sede extra-parlamentare con un pregiudicato con l’assistenza di un rinviato a giudizio (due volte) come Verdini; e invece di ricattare, come segretario del PD, i parlamentari del suo partito (che per la verità in generale non oppongono grande resistenza) minacciando di non ricandidarli.

Naturalmente ognuno si sceglie gli interlocutori che ritiene opportuno in base agli obiettivi che si pone, e il segretario del PD sembra aver scelto i rappresentanti di quel mondo finanziario, speculativo e industriale che domina da tempo il nostro Paese e su cui ricade gran parte della responsabilità dell’arretratezza del nostro sistema produttivo e della conseguente crisi occupazionale. Quali interessi intende difendere lo possiamo dunque dedurre facilmente.  

 Ancora una volta Renzi dimostra di essere tutt’altro che ‘nuovo’. Le sue idee sono invece talmente vecchie che sembrano innovative solo a chi vuole dimenticare un passato non tanto lontano, come sta avvenendo con la legge elettorale (ispirata come la precedente alla legge Acerbo del periodo fascista), con l’abolizione della elezione diretta dei consigli provinciali (anch’essa già attuata intorno al 1925), con l’immagine corporativa di una coincidenza di obiettivi fra lavoratori e ‘padroni’, eccetera.

 Quando gli fa comodo, come in questo caso, il presidente del consiglio si aggrappa a formalismi che ignorano l’evoluzione che nella seconda metà dello scorso secolo ha avuto il sistema parlamentare con il diffondersi nella società di forme associative diverse dai partiti, portatrici di interessi che molto spesso hanno anticipato non di poco l’evoluzione del pensiero politico. Basta pensare ai movimenti ambientalisti.

Anche il sindacato, con qualche contraddizione, è vero, nel nostro Paese ha vissuto questa evoluzione, non solo superando la sola funzione rivendicativa sul posto di lavoro, ma tentando di elaborare e farsi promotore di scelte di interesse generale.

Questo in particolare in coincidenza con le fasi di maggior involuzione del quadro politico, quando i partiti di quello che si chiamava ‘arco costituzionale’ apparivano in stato confusionale e incapaci di svolgere la loro funzione di ‘corpi intermedi’ a causa dell’inadeguatezza dei loro gruppi dirigenti, della diffusione esplosiva dei nuovi mezzi di comunicazione e degli effetti della ‘globalizzazione’ dell’economia.

 Oggi i problemi che l’Europa, e l’Italia in particolare, devono risolvere di fronte all’aggressione della speculazione finanziaria internazionale e ai nuovi equilibri mondiali richiedono senza dubbio profondi cambiamenti anche culturali, e non possono essere risolti senza un vasto consenso popolare, che ristabilisca un clima di coesione e di fiducia nelle istituzioni democratiche. L’alternativa sarebbe il ritorno a forme populistiche, autoritarie e violente di governo finalizzate alla conservazione di privilegi oligarchici già insopportabili: ce lo dicono le analisi sulla sempre maggiore concentrazione della ricchezza in un numero sempre minore di famiglie.

 Questo consenso non può essere riconosciuto a un Parlamento nato da una legge elettorale dichiarata incostituzionale, che tradisce nella sua composizione la volontà espressa dagli elettori e disposto ad approvare qualunque cosa pur di sopravvivere.

Non può essere nemmeno rivendicato da un leader di partito che tenta di legittimarsi per aver vinto le elezioni europee (con un astensionismo vicino al 50%), inseguendo sul suo terreno il principale partito di opposizione e grazie alla elargizione di 80 euro, ampiamente compensata dal taglio dei servizi pubblici e dall’aumento del carico fiscale.

 Non c’è dubbio che la responsabilità delle scelte politiche debba ricadere sul chi le approva, ma Renzi dovrebbe ricordare che la sua maggioranza parlamentare deriva dal ‘trucco’ contabile della legge Calderoli e da un programma elettorale totalmente opposto alle politiche che sta con ostinazione cercando di imporre al Paese.

Anche in questo il suo modello sembra essere il peggior Berlusconi: una volta ottenuto il potere, non importa con quali strumenti, chi ha vinto ‘piglia tutto’, senza preoccuparsi della coerenza e, soprattutto, senza tenere conto del ruolo della opposizione e della necessità del confronto.

 Tocqueville, assai più ‘moderno’ dell’attuale presidente del consiglio per caso, nella prima metà dell’800 aveva già denunciato i rischi derivanti dalla ‘dittatura della maggioranza’, e individuato proprio nelle forme spontanee di aggregazione sociale gli anticorpi per fronteggiarla.

 Il ruolo del sindacato, come quello dei tanti movimenti di opinione che cercano di salvare la nostra Costituzione repubblicana e quanto resta delle nostre istituzioni democratiche, del nostro sistema di solidarietà sociale, del nostro patrimonio culturale e ambientale, deve dunque essere difeso nonostante i suoi limiti, in attesa di un nuovo indispensabile soggetto politico che riesca a rappresentare quella crescente area della società italiana, responsabile e legalitaria, che vuole chiudere definitivamente con il ventennio della sottocultura berlusconiana, ma non si sente rappresentata né dal populismo approssimativo di Grillo o dalle varie sigle vetero-marxiste, né da un PD ‘partito della nazione’, dai troppi legami opachi, autoritario e schiacciato sulle logiche dominanti del ‘mercato’.

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