È tempo di ipotesi di governo, e dunque è tempo di appelli. Per esempio: “Cari amici del Movimento 5 Stelle, una grande occasione si apre, con la vostra vittoria alle elezioni, di cambiare dalle fondamenta il sistema politico in Italia e anche in Europa. Ma si apre ora, qui e subito. E si apre in questa democrazia, dove è sperabile che nessuna formazione raggiunga, da sola, il 100 per cento dei voti. Nessuno può avere la certezza che l’occasione si ripresenti nel futuro. Non potete aspettare di divenire ancora più forti di quel che già siete, perché gli italiani che vi hanno votato vi hanno anche chiamato: esigono alcuni risultati molto concreti, nell’immediato, che concernano lo Stato di diritto, l’economia e l’Europa. (…) Avete detto: ‘Lo Stato siamo noi’. Avete svegliato in Italia una cittadinanza che vuole essere attiva e contare, non più delegando ai partiti tradizionali le proprie aspirazioni. Vale per voi, per noi tutti, la parola con cui questa cittadinanza attiva si è alzata e ha cominciato a camminare: ‘Se non ora, quando?’.

Sembra scritto ieri, questo appello; e invece fu lanciato il 9 marzo 2013, a firma di Remo Bodei, Roberta De Monticelli, Tomaso Montanari, Antonio Padoa-Schioppa, Salvatore Settis, Barbara Spinelli. E il giorno dopo Michele Serra lanciava un appello assai simile, firmato da alcune delle stesse persone (fra gli altri, anche don Gallo, don Ciotti, Carlin Petrini, Saviano).

In questo Paese distratto e smemorato, richiamare quegli appelli non è vano esercizio archivistico. È, anzi, consapevole scelta politica, e per almeno due ragioni. Prima di tutto: se le stesse identiche parole ci appaiono ancora attualissime, tant’è vero che vengono ripetute oggi in coro da molti, vuol dire che abbiamo perso cinque anni di vita. Un’intera legislatura gettata al macero inseguendo una riforma costituzionale scritta non coi piedi ma con le zampe, una fallimentare retorica delle riforme, due leggi elettorali sgangherate, l’egolatria di un bulletto di periferia, l’ostinata occupazione di posizioni di potere. Ma la seconda ragione è ancor più importante: se i nostri appelli fossero stati accolti allora (marzo 2013), si sarebbe creata un’alleanza tra Cinque Stelle e Pd, magari solo sperimentale e di scopo, e forse con una scia di malumori e abbandoni. Ma un governo di tale assetto, cinque anni fa, poteva significare generosità e coraggio politico-istituzionale, lungimiranza, cura e passione per la fabbrica sociale, visione del futuro, volontà di indicare ai cittadini un traguardo. Poteva voler dire fiducia nella Costituzione e nelle istituzioni, ma anche in se stessi: nella propria capacità di tenere saldi alcuni punti programmatici pur dovendone negoziare i dettagli con altre forze politiche.

Quell’occasione è persa per sempre. Ma visto che identici appelli risuonano, cinque anni dopo, con le stesse parole e rivolte agli stessi interlocutori (coi Cinque Stelle in ancor più chiara posizione di forza e il Pd in fase di suicidio assistito), possiamo ritrovare domani, in quanto comunità di cittadini, lo stesso slancio e lo stesso ottimismo che nel 2013 furono spenti da paure, miopie, sospetti, insicurezze? Chi ancora lo crede possibile non deve illudersi che sia facile. Il rischio che oggi corriamo non è che si ripetano i falsi movimenti del 2013 (raccontarli sarebbe deprimente). Il rischio è che il tunnel dorato delle manovre istituzionali e del galateo parlamentare contagi chi vi entra adesso dopo tanto lunga esitazione. Che i negoziati per la formazione del nuovo governo prendano la strada di una burocrazia cerimoniale, buona per tranquillizzare l’esercito dei benpensanti ma non per offrire all’Italia un progetto per il futuro.

Cinque anni dopo, è ancor più necessario far balenare un prossimo orizzonte in cui si assicuri ai giovani un lavoro, al nostro suolo martoriato un riscatto, alla sanità e alla spesa sociale un’inversione di marcia, alla scuola e alla cultura la priorità che meritano nell’interesse delle nuove generazioni, alle città storiche la tutela del loro dna, ai cittadini investimenti pubblici che inneschino creatività.

Questi e altri possibili punti programmatici hanno un nome già pronto, se non vogliamo accecarci per non vederlo: si chiamano, né più né meno, attuazione della Costituzione. Se davvero il referendum del 4 dicembre 2016 è stata la camera di incubazione delle elezioni del 4 marzo, a questa strada non ci sono alternative. Ma nulla garantisce che verrà seguita, se non ci ricordemo che il nostro compito non si esaurisce nella cabina elettorale, ma ci impegna a tenere il fiato sul collo a chi abbiamo eletto.