“La vera catastrofe è lasciare che tutto continui come ora”. Questa profezia di Walter Benjamin par fatta su misura per l’Italia di oggi. Ma anche di ieri. Lo capirono bene gli elettori del 2013, regalando al M5S 8.691.406 voti e facendone il primo partito d’Italia, e non perché avesse programmi di governo credibili, bensì per una vaga ma forte speranza di novità.

E fu solo grazie al Porcellum che non i singoli partiti, ma le coalizioni raccolte intorno al Pd e a Berlusconi raccattarono più seggi.

All’indomani di quelle elezioni, Barbara Spinelli lanciò su Repubblica (9 marzo) un appello a Beppe Grillo, Un patto per cambiare: se non ora, quando?; un simile appello fu lanciato il giorno dopo sullo stesso giornale da Michele Serra (Spinelli e io li firmammo entrambi). Chiedevamo che “la speranza di cambiamento non venga travolta da interessi di partito, calcoli di vertice, chiusure settarie, diffidenze, personalismi”. Chiedevamo di impedire le “larghe intese” con Berlusconi che erano dietro l’angolo, formando un governo a termine che affrontasse alcune urgenze, come il conflitto d’interessi e la legge elettorale e lanciando nuovi “investimenti su territorio, energia, ricerca, scuola pubblica”. L’esito di quegli appelli è noto: dal Pd non una sillaba, e da Beppe Grillo sberleffi e facezie contro “gli intellettuali”. Così abbiamo avuto, in compenso, larghe intese con Berlusconi e poi Alfano e Verdini, un aborto di riforma costituzionale, due leggi elettorali nuove ma pessime, norme fallimentari sulla scuola e il lavoro, un diluvio di parole e una sostanziale stagnazione sull’orlo dell’abisso.

Cinque anni e tre governi dopo val la pena di ricordarsene, perché si fissò allora la regola del gioco che ancora ci affligge: lo scontro fra due opposte retoriche, entrambe con poco contenuto, il mito della stabilità e la bandiera del rinnovamento. Sono cambiati gli schieramenti, si sono spostate le pedine sulla scacchiera, ma il gioco è sempre quello, un perpetuo surplace che porta il Paese allo sfinimento. Chi voleva stravolgere la Costituzione in nome della stabilità, anzi ci aveva già provato (Berlusconi, Brunetta), ha strumentalmente bocciato la riforma Renzi-Boschi, pronto a cucinarne domani un’altra assai simile. Domina la scena un’eterna quadriglia di alleanze, in cui quel che importa non è il futuro dell’Italia, non è l’analisi dei suoi problemi, non è un progetto di governo, ma il gioco delle candidature e delle appartenenze, e si recitano a giorni alterni le litanie della stabilità e del rinnovamento. Purché non si entri nel merito, mai e poi mai. Pur avendo contribuito a questa eterna situazione di stallo, Giorgio Napolitano lo ha detto lucidamente al Corriere della Sera (28 gennaio): “I programmi che i partiti hanno delineato sono in larga misura indeterminati e inattendibili”, senza “nessuna presa di distanza da questa corsa demagogica che coinvolge un po’ tutti”.

La legge elettorale, col suo inossidabile principio di impedire agli elettori la scelta dei parlamentari, è ormai alla sua terza edizione consecutiva, in un braccio di ferro con la Consulta che è destinato a durare. Questa legge è dunque lo strumento principale con cui la politica politicante si gioca la pelle alla roulette russa del 4 marzo, puntando a ogni costo su un Parlamento di nominati da eleggersi puntando a qualcosa che si scrive stabilità e si legge stagnazione; che invoca il rinnovamento ma non sa dire di che cosa, né per fare che cosa.

In assenza di progetti meditati e plausibili, si ricorre a promesse improbabili, largizioni ed elemosine, dagli 80 euro alla flat tax, dall’università sempre peggiore purché gratis alle mendaci promesse di lavoro. In assenza di un traguardo, si invitano gli elettori a votare sempre e comunque, per chicchessia, indipendentemente da quel che ognuno pensa e da quel che i candidati sono disposti (o preparati) a fare. Perfino il momento più felice della democrazia italiana da molto tempo a questa parte, l’afflusso di giovani elettori al referendum sulla riforma costituzionale e la sua conseguente, solenne bocciatura, viene svilito a spuntata arma retorica, sognando che esista una sorta di “partito della Costituzione”, che voterebbe per questo o per quello sulla base di liste bloccate, programmi fumosi, petizioni di principio, slogan vuoti e bugiardi, ostentazioni di muscoli, lealtà di partito.

Ma fra quanti hanno votato per la Costituzione il 4 dicembre 2016 i più non hanno “votato per votare”, e nemmeno in nome di uno schieramento eterogeneo, di fatto una sorta di “larghe intese” anti-Renzi senza alcuna possibilità di tenuta. Gli elettori più significativi di quel referendum, i giovani che la strategia Renzi-Boschi immaginava si astenessero, decisero allora di votare non per fare un favore a chi glielo chiedeva, né in cambio di promesse e chiacchiere. Votarono No a quella riforma perché si convinsero che la Costituzione così com’è tutela i loro diritti più e meglio della de-Costituzione cucinata in casa Renzi-Boschi. Eppure, in nome ora di una presunta “stabilità”, ora di un nebbioso “cambiamento”, la Costituzione viene delegittimata e ferita ogni giorno. Lo ha detto con implacabile precisione il procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato: “Le leggi ordinarie hanno in buona misura svuotato di reali contenuti diritti costituzionali fondamentali come quello del lavoro. Una decostituzionalizzazione strisciante funge da lasciapassare per politiche economiche che determinano una crescita vertiginosa delle disuguaglianze sociali e dell’ingiustizia. (…) Il tradimento delle promesse della Costituzione determina la disaffezione di larghe componenti popolari non solo nei confronti della politica ma anche nei confronti dello Stato”.

Di fronte a questa situazione di vera emergenza sarebbe necessaria la forte riaffermazione dei principi costituzionali, ma anche la chiara indicazione delle politiche di bilancio che ne assicurino la praticabilità. Ma nulla di simile si è sinora visto in una campagna elettorale che si finge accesa, ed è fiacca e inerte. È dunque certo che, se qualcosa di più serio non interviene di qui a un mese (ed è improbabile), l’astensionismo tornerà ai livelli record pre-referendum, e il Paese sarà ostaggio di uno scontro perenne fra una “stabilità” e un “rinnovamento” accomunati da una desolante mancanza di progetti e di idee. Questa e non altra è la vera catastrofe che ci attende: che tutto continui come ora.