"Ci tenevano lì, al gelo, tutti insieme in una cella vuota, senza bere,
né mangiare, né poter andare al bagno. Chi chiedeva un po' d'acqua o si
lamentava per le ferite aperte veniva aggredito, deriso, minacciato. Ci
avevano detto: ricordatevi di Bolzaneto, ricordatevi di Genova. Per 14
ore nel centro di identificazione di Tor Cervara abbiamo subito ogni
tipo di angheria e di terrorismo psicologico, con la consapevolezza che
laggiù, in quella specie di carcere, lontani da tutto e da tutti, ci
sarebbe potuta succedere qualunque cosa". Alice ricorda e i ricordi
fanno male. Ombre di freddo e di paura. Di scherno e di violenza. Ha
gli occhi pesti, un braccio al collo e una caviglia gonfia. Ventitré
anni, i capelli e gli occhi scuri, i modi gentili e lo sguardo di chi
sa quello vuole. Seduta nella piccola cucina di una casa da studenti,
posti letto a 250 euro l'uno, con il caffè caldo sul tavolo e gli amici
intorno, Alice Niffoi, arrestata negli scontri di martedì scorso,
ferita a manganellate dalla polizia e poi detenuta con altri 23
ragazzi, racconta la sua vita di ragazza normale sconvolta da un
pomeriggio di guerra. E la sua voce, i suoi desideri, i suoi sogni di
studentessa di Scienze Politiche che vuole occuparsi di "Altra
economia", sembrano essere quelli di un'intera generazione, di un
movimento che rifiuta la violenza, ma dice Alice, "finché ci saranno
zone rosse noi le violeremo, sono loro i violenti non noi".
È nata ad Orani Alice, in Sardegna, nel cuore della Barbagia, con una mamma professoressa di Lettere che nel '77 partecipò
alla grande protesta universitaria e un papà che fa il rappresentante,
le superiori al liceo classico "Asproni" di Nuoro, poi quattro anni fa
il salto verso Roma, "avevo voglia di vivere in una metropoli, credevo
nell'università, oggi ho capito che per fare il mio lavoro me ne dovrò
andare, qui per noi non c'è più posto". Noi, cioè loro, sono i ragazzi
che occupano, che manifestano, e il 22 torneranno in piazza in una Roma
che li attende in assetto militare e armato. Suonano i telefoni, il
campanello, i vetri sono appannati dal freddo, ma dentro questo
appartamento nel quartiere del Pigneto, alle spalle della periferia
Casilina, ci sono calore, solidarietà, gli amici entrano, escono,
abbracciano Alice, "certo che ti hanno conciato male...".
"Adesso tutti cercano di darci etichette, ma noi siamo lontani dai partiti, anche dalla sinistra, chiediamo soltanto di poterci costruire vite dignitose, di avere accesso al lavoro, e la risposta del Governo è stata quella di riempici di botte, mentre tremavo dal freddo, scalza, nel seminterrato buio dove ci avevano rinchiusi, ho pensato che quel luogo assomigliava alla "cella del ministero dell'Amore" come nel romanzo 1984 di George Orwell...". Ossia il ritrovarsi in un copione assurdo, in un incubo, con l'accusa per Alice di resistenza aggravata. "Rivedo quelle scene in continuazione, ero ben stretta nei cordoni di testa del corteo, non ho tirato pietre, nulla, semplicemente avanzavo mentre la polizia caricava, e così mi hanno presa, trascinata via, picchiata con il manganello sulla testa e sulle spalle, buttata in un cellulare con le manette ai polsi".
Un salto nel buio, nell'oscurità, la consapevolezza che il gioco si è fatto duro, durissimo, e forse la vita di prima non sarà più la stessa. "Faccio teatro, dovevamo mettere in scena un testo di Laforgue, ma lo spettacolo è saltato, mi piace David Bowie, leggo moltissimo, di tutto, gli scrittori sardi, Michela Murgia, Flavio Soriga, ho appena finito un testo di Anna Simone Corpi del reato". "Mia madre si è spaventata - mormora Alice - è naturale, però sa che la nostra protesta è giusta. Ma lo sanno in Parlamento che fatica è poter studiare, mai un cinema, un ristorante, al supermercato cerchiamo i cibi meno costosi, comprare i libri è un'impresa. Vogliono schiacciarci? Noi reagiremo, è tutto il movimento che si ribella. E io avevo un nonno partigiano, come potrei smettere di manifestare?".