Roberto
Saviano lo aveva ammesso in diretta tv: “Io sono terrorizzato dalla
delegittimazione”. Che poi equivale all’isolamento o, quantomeno,
ne è la premessa. Ed isolamento significa esposizione a chi ti vuole
fermare, uccidere, cancellare, significa rimanere nudo, diventare
bersaglio facile. Giovanni Falcone lo aveva detto: “Si muore
generalmente perché si è soli […] perché si è privi di
sostegno”. Le organizzazioni criminali, infatti, hanno timore e
diventano più deboli quando vedono che la gente, in massa, reagisce,
non si piega, accompagna e sostiene chi ha avuto il coraggio di
denunciare, di combattere. Ma la gente da sola non basta, perché per
prime devono essere le istituzioni a proteggere e sostenere chi si
batte per la legalità. Sempre Falcone diceva che “in Sicilia la
mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a
proteggere”. E per servitori dello Stato non si intendono solo
magistrati o poliziotti, ma tutti coloro (semplici cittadini,
sindacalisti, giornalisti, sacerdoti) che nel loro agire quotidiano
hanno lottato contro la mafia e sono morti da soli, sacrificando la
loro vita per uno Stato che li ha dimenticati o addirittura
ostacolati.
Tutto inizia con la delegittimazione, che giunge da
ambienti criminali o da ambienti complici e conniventi, ma non solo.
Come detto, spesso sono le istituzioni a compiere atti
delegittimanti. È il caso di De Magistris, giudice serio ed onesto
che ha pagato per la sua integrità morale nell’applicare il
principio per cui la legge è uguale per tutti.
È il caso di
Gioacchino Genchi, sotto processo e sospeso dalla Polizia, solo per
aver svolto il suo lavoro in indagini che toccavano noti esponenti
della politica nazionale.
È il caso, recentissimo, di Pino Maniaci, giornalista coraggioso dell’emittente tv Telejato di Partinico (Pa), il quale è stato rinviato a giudizio per esercizio abusivo della professione di giornalista. Maniaci, infatti, ha la “colpa” di non possedere il patentino di pubblicista, mezzo che consente a chi scrive di essere inquadrato professionalmente come giornalista, entrando a far parte dell’Ordine e vedendosi riconoscere tutta una serie di tutele che, comunque, spettano anche a chi non lo possiede. Una questione puramente burocratica che nulla ha a che vedere con la dignità e le qualità del giornalista, che nessun tesserino può darti o toglierti.Certamente per essere direttore devi avere questo patentino, ma Pino Maniaci non è il direttore di Telejato, carica ricoperta da Riccardo Orioles, altro giornalista antimafia.
Quindi, le motivazioni che hanno spinto il pm Caltabellotta a
rinviarlo a giudizio sono già deboli e insufficienti, dato che per
lo svolgimento di attività giornalistiche nel ruolo di redattore o
conduttore non è necessaria l’iscrizione all’Albo. Maniaci è un
ottimo giornalista che, in un luogo inquinato dalla mafia, ha saputo
sfidarla apertamente con il proprio telegiornale, con i propri
servizi, con il proprio coraggio. Un uomo che ha subito, per questo,
numerose querele da mafiosi della zona, intimidazioni, aggressioni.
Il suo è un esempio pulito e semplice di quella Sicilia che si
ribella allo strapotere mafioso, senza paura, senza lasciarsi
intimidire dalla violenza e dalle minacce.
Adesso, su segnalazione di
qualcuno, la magistratura dispone un processo contro una voce
dell’antimafia e della legalità. Una scelta a dir poco discutibile
ed offensiva, anche perché esiste già un organismo, l’Ordine dei
giornalisti, in grado di provvedere da sé e di far rispettare le
regole che ne disciplinano l’attività. Tra l’altro Maniaci, dopo
l’ennesima minaccia, aveva ricevuto dal presidente dell’Unci
(Unione nazionale cronisti italiani) la tessera onoraria
dell’associazione. E, infatti, puntuale è arrivata anche la
solidarietà della Fnsi, la federazione nazionale della stampa che,
in un comunicato, ha affermato che il rinvio a giudizio di Maniaci
“da sempre impegnato contro la mafia, desta preoccupazione e
scalpore”, aggiungendo: “Ora, che la magistratura abbia scoperto
il segreto di pulcinella, e cioè la non iscrizione all’ordine
nell’elenco dei pubblicisti di Pino Maniaci, ci pare grottesco:
come se si volesse far passare il nostro collega alla stregua di
persona inaffidabile e millantatrice. Avremmo francamente preferito
che la magistratura magari avesse posto la propria attenzione a tutti
quei fenomeni di irregolarità nel sistema dell’informazione che
creano dovunque lavoro nero e preoccupanti casi di elementari
violazioni contrattuali”. L’augurio finale è che il rinvio a
giudizio si concluda con un “nulla di fatto”.
Un augurio
legittimo, basato sulla convinzione che il possesso del tesserino non
può essere discriminante rispetto al diritto di manifestazione del
pensiero, soprattutto perché, come ha scritto saggiamente Enrico
Fierro su l’Unità,
“tutto appare francamente ridicolo. Soprattutto in un
Paese dove ormai non esiste professione più “abusata” di quella
giornalistica. Le tv sono zeppe di attrici e soubrette che
intervistano ministri, comici che chiedono quale sia il senso della
vita a segretari di partito, ecc.”. Inoltre, lo stesso Fierro
ricorda che anche Siani e Impastato, due grandi giornalisti uccisi
rispettivamente da camorra e mafia, non erano iscritti all’Albo.
L’azione della magistratura contro Maniaci si prefigura come un
tentativo, magari inconsapevole, di quella delegittimazione di cui ha
parlato Saviano su Raitre a Che tempo che fa?.
E proprio prima di quella trasmissione, il procuratore aggiunto di
Palermo, Antonio Ingroia, intervistato da Klaus Davi, aveva
rilasciato delle dichiarazioni abbastanza sorprendenti: “È
opportuno utilizzare i media per poter lanciare messaggi positivi
soprattutto ai giovani. Non bisogna, però, apparire come coloro che
vogliono fare professionismo. Saviano ha dimostrato di essere bravo e
intelligente. Immagino che riuscirà ad avere un livello di
consapevolezza tale da poter rilanciare d’ora in avanti la sua
immagine”. Anche questa è delegittimazione. Cosa significa
professionista dell’antimafia? Nulla, assolutamente nulla. È solo
un’etichetta che finisce per categorizzare, differenziare ed
isolare un ragazzo che sta facendo del suo meglio, svegliando le
coscienze di chi forse pensava che mafia e camorra fossero qualcosa
appartenente al passato di questo Paese.
Non si capisce davvero
perché un uomo come Ingroia, che da giovane ha lavorato con
Borsellino, possa lasciarsi andare ad un giudizio così leggero e
superficiale, oltre che inappropriato e discutibile. Così come
discutibili appaiono i suoi gusti cinematografici, allorquando, a
proposito della mancata candidatura del film “Gomorra” agli
Oscar, afferma che in “Gomorra” manca l’ironia che invece è
presente nella fiction “I Soprano” (la saga di una famiglia
mafiosa italo-americana, orribile per il solo fatto che cerca di
rendere simpatici dei criminali): “Sarà per questo che, forse,
non è rientrato nelle corde del pubblico americano”. Cosa
c’entra l’ironia volga rotta de “I Soprano” con un dramma
come la camorra o la mafia?
Ad ogni modo, i gusti sono gusti e sono di gran lunga meno importanti delle parole e dei giudizi su un grande scrittore come Saviano, soprattutto se hanno l’effetto di delegittimarne l’impegno ed il ruolo e soprattutto se vengono dalla bocca di un magistrato antimafia.