Sembrava d'esser tornati ai tempi del cardinale Richelieu, con segreti
messaggeri che percorrono l'Europa portando nel giustacuore una lettera
ancor più misteriosa. Dei contenuti reali di questa missiva - che ieri a
pranzo Gianni Letta correva a «rettificare» qui e là - non si riusciva a
sapere molto.
Ma siamo in realtà nell'era della Rete. E non appena
gli staff dei capi di governo dei paesi non-euro sono usciti dalla prima
riunione - intorno alle 19 - se n'è cominciato a sapere qualcosa di
più. E a capire che non era cambiato l'orizzonte «filosofico» sacconiano
dell'attuale governo: la crisi debbono pagarla quei «fessi» che
lavorano tutta la vita, in qualsiasi regime contrattuale l'abbiano
fatto. E basta.
La volontà persecutoria del lavoro dipendente esce
fuori chiaramente dalle uniche «voci» che non erano comprese nelle bozze
precedenti. Elenchiamo dunque le misure principali.
Libertà di
licenziamento «per motivi economici». «Entro maggio 2012» il governo
varerà una legge per cui ai dipendenti assunti con contratto a tempo
indeterminato sarà dovuto solo un risarcimento monetario (neppure
quantificato in mesi di stipendio), ma non più il diritto al reintegro
sul posto di lavoro tramite ricorso al giudice. Nella normativa attuale
siste già questa possibilità, ma come licenziamenti collettivi in
seguito a dichiarazione di uno «stato di crisi», verificato e
certificato dalle istituzioni pubbliche. In assenza di dettagli, quindi,
si è costretti a immaginere che questi «motivi economici» saranno
sostanzialmente «autocertificati» dai datori di lavoro, e usati per
colpire singoli dipendenti, magari «scomodi» per ragioni sindacali.
Dal
lato opposto si parla di realizzare una «stretta» sull'abuso dei
contratti atipici, in modo da favorire l'assunzione stabile dei più
giovani. Idem per l'apprendistato e l'incentivazione del lavoro
femminile. In pratica si realizza un doppio tritacarne: maggiore
«flessibilità in uscita» (tradotto: licenziamenti) e un pizzico di
minore flessibilità «in entrata». Il controllo della «docilità» del
singolo lavoratore verrà fuori comunque da un numero di anni trascorsi
tra contratti precari, apprendistato o salario d'ingresso.
In secondo
luogo, viene confermato il blocco del turnover dei dipendenti pubblici
(ormai decennale), aggravato dalla volontà di «mettere in mobilità»
300.000 statali e parastatali. Il meccanismo è caro al ministro
Brunetta: i dipendenti pubblici «in eccesso» in alcune situazioni
verranno trasferiti d'ufficio ad altra sede o incarico, anche fuori dal
comune di residenza. Avranno due anni di tempo per accettare la
destinazione, dopo di che verranno licenziati.
Terzo nodo feroce:
l'età pensionabile («vecchiaia») sarà elevata a 67 anni da qui al 2026,
sia per gli uomini che per le donne. Per le lavoratrici del settore
privato inizia già a gennaio il progressivo aumento dagli attuali 60
anni ai 65, per arrivare infine alla nuova soglia.
Abbiamo dunque un
combinato disposto piuttosto evidente. I lavoratori vedranno
allontanarsi sempre di più l'età del ritiro in pensione, mentre le
aziende vengono rese di fatto libere di mandarli via quando vogliono.
Specie per le mansioni meno qualificate e più logoranti, è facile
prevedere che verranno messi fuori scaglioni interi di
ultracinquantenni, sostituibili con giovani senza garanzie, salari bassi
e sindacalizzazione vietata (alcuni licenziamenti «selettivi» saranno
più che istruttivi).
La «filosofia» imprenditoriale di questo governo
è dunque singolarmente retrograda: eliminare le difese del lavoratore
risulta l'unica «politica di sviluppo» che riesca a pensare. Oltre
tutto, si tratta di decisioni «facili» da prendere per decreto, ma di
difficile - se non impossbile - quantificazione economica. Quanto
«sviluppo» produce un licenziamento?
Il resto è ordinario saccheggio
del patrimonio pubblico. Le dismissioni dovrebbero essere varate gia a
fine novembre, e produrre almeno 5 miliardi l'anno per tre anni.
Ulteriore «ristrutturazione» di scuole e università, con chiusure
selettive e aumento delle rette a discrezione locale. Un «piano
straordinario per il Sud» che si riduce a utilizzare i fondi strutturali
europei senza aggiungervi la quota italiana. La «privatizzazione dei
servizi pubblici locali» (ma «non l'acqua... dicono).
Il tutto in un
profluvio di chiacchiere senza numeri su liberalizzazioni degli ordini
professionali (la «tariffa minima» diventa un «punto di riferimento
derogabile»), «zone a burocrazia zero», riduzione della «litigiosità»
nella giustizia civile, ecc. Naturalmente fioccano le promesse sulla
riduzione del numero dei parlamentari e l'abolizione delle province. E,
in un angolo una pericolosissima «riforma costituzionale» per
«rafforzare il ruolo dell'esecutivo e della maggioranza». Somiglia a un
golpe, è disegnato come un golpe. Forse andrebbe chiamato così...
L'età pensionabile («vecchiaia») sarà elevata a 67 anni da qui al 2026, sia per gli uomini che per le donne. Per le lavoratrici del settore privato inizia già a gennaio il progressivo aumento dagli attuali 60 anni ai 65, per arrivare infine alla nuova soglia