LA MANCATA REINTEGRA DEI LAVORATORI DI MELFI NON E’ UN CASO

di Giuliana Quattromini - Liberacittadinanza - 28/08/2010

La questione dei tre operai della Fiat di Melfi reintegrati da una sentenza del Tribunale del Lavoro (ma deve trattarsi di un decreto per condotta antisindacale), ai quali non viene consentito di riprendere di fatto la propria attività lavorativa, non è un “caso” nuovo ed isolato, non è l’eccezione, ma rappresenta ormai quasi sempre la regola.

Dei tre reintegrati  solo “sulla carta” si parla come d’un caso nuovo ed emblematico.

Forse dipenderà dal fatto che i giornali si occupano molto più spesso di quello che accade nelle aule penali perché indubbiamente fa più notizia, ma posso testimoniare che quello che accade in questi giorni a Melfi rappresenta il comportamento aziendale tipo che da anni si registra dopo una sentenza di reintegrazione nel posto di lavoro.

Quella di Melfi non è una vicenda che – come ha scritto Gad Lerner nella sua analisi apparsa ieri sulle  colonne di questo giornale - evoca ricordi lontani, come quelli dei reparti-confino, ma è l’ordinaria evoluzione di qualsiasi procedimento giudiziario che veda contrapposti i lavoratori alle aziende.

Così come è prassi quotidiana che gli avvocati di certe aziende minaccino il lavoratore che esercita i propri diritti o l’ufficiale giudiziario che fa il proprio dovere.

In questi ultimi anni il vecchio padrone delle ferriere, anche se con tecniche terroristiche più sofisticate, è tornato più forte di prima e, ringalluzzito dalla crescente deregulation in materia giuslavoristica e dall’attuale clima politico,

non ha paura di nulla, figurarsi di una sentenza di un giudice del lavoro!

Uno dei tre lavoratori di Melfi reintegrati ha dichiarato oggi all’inviato di Repubblica Dario Del Porto: << In questi giorni mi sono sentito umiliato più di quando mi hanno licenziato. Il giudice ha stabilito che devo tornare al lavoro, ciò nonostante l’azienda ritiene di pagarmi lo stipendio per tenermi chiuso in una stanza. Credo che una cosa del genere non sia mai accaduta, neppure in Sudamerica>>.

Devo purtroppo rispondere al lavoratore che i miei dati di giuslavorista (da oltre venticinque anni) sono addirittura molto più drammatici.

C’è di peggio: infatti, fin quando l’azienda, dopo la sentenza che ordina la reintegrazione nel posto di lavoro, lascia il lavoratore a casa e paga spontaneamente le retribuzioni siamo al braccio di ferro con una sentenza di un giudice della Repubblica Italiana, almeno parzialmente rispettata nell’aspetto meramente economico.

In altri casi, invece, posso testimoniare di lavoratori licenziati nel 1997 che, sebbene reintegrati con sentenza passata in giudicato, dopo 13 anni non hanno ancora visto un euro.

Mi si chiederà come sia possibile.

I trucchi sono tanti: ad esempio si scorpora il ramo produttivo dove dovrebbe avvenire la reintegra e lo si fa diventare un binario morto.

Oppure l’azienda destinataria della sentenza di reintegra apparentemente cessa l’attività (e magari non può neppure essere dichiarata fallita perché è decorso l’anno dalla chiusura), ma in realtà cambia denominazione e sede legale e continua a lavorare e a produrre sotto gli occhi di tutti. L’ufficiale giudiziario che si reca sul posto per notificare le varie sentenze se ne ritorna con le pive nel sacco, dichiarando che lì non vi è più l’azienda tal dei tali, ma un’altra società che “è tutta un’altra cosa” e ciò impedisce di eseguire la sentenza.

Di una di queste vicende giudiziarie si è occupato qualche tempo fa Riccardo Icona, in una di quelle trasmissioni sui Tribunali nella serie W l’Italia. Vi invito a rivedere la puntata. La risposta arrogante che dà il difensore della società è praticamente sempre la stessa: sentenza o non sentenza, noi non pagheremo mai.

Ora, a tutto questo la Fiat non è arrivata. Di certo la messa in cassa integrazione di altri dipendenti è troppo forte per non essere letta come una arrogante risposta al monito del Presidente Napolitano, ma se Gad Lerner dubita che le aziende vogliano riformare il diritto del lavoro, io gli rispondo che lo stanno già facendo da anni.

Negare nei fatti l’esecutorietà ad una sentenza di reintegra può diventare molto più grave di una modifica dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori.

In conclusione, anche se il caso dei lavoratori di Melfi è tutt’altro che una novità, ben venga che se ne parli.

Devo infine aggiungere che dietro ogni decisione aziendale vi è un avvocato.

Forse in alcuni casi un consigliere del principe, modello vecchio e caro a gran parte dell’avvocatura italiana. Poi vi è il difensore dei deboli, ivi compresi i lavoratori, le vittime del malgoverno e della corruzione.

Quest’ultimo modello di avvocato, quasi una specie in via di estinzione, è oggi più che mai necessario a causa dei danni enormi che lavoratori e risparmiatori hanno subito per effetto della corruttela politico-affaristica che avvelena l’Italia da 16 anni.


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