Muri tremeBONDI

di Barbara Fois - Liberacittadinanza - 10/11/2010
Emblematico crollo a Pompei di una domus: simbolo di un governo che non sta più in piedi e di un ministero della cultura incapace di tutelare il patrimonio archeologico e artistico del paese

La Schola Armaturarum, più comunemente detta anche la “casa dei gladiatori” è l’edificio crollato a Pompei qualche giorno fa e che come risulta “non era rientrata negli ultimi piani di restauri che hanno impegnato 79 milioni di euro in due anni, di cui il 90% per la tutela e la messa in sicurezza della città antica.”

La Schola era una palestra in cui si allenavano gli atleti più amati dai tifosi dell’epoca, un po’ come i calciatori di oggi, ed è un edificio costituito da un unico locale rettangolare di circa 8 metri x 10, per una altezza di circa 6 metri. Da quello che si legge nei giornali campani, sembra che il crollo abbia interessato le murature verticali ricostruite dopo i bombardamenti dell’ultima guerra, mentre parrebbe essersi conservata la parte più bassa, per un'altezza di circa m. 1,50. “E cioè, la parte che ospita le decorazioni affrescate, che quindi si ritiene che potrebbero essere recuperate». È almeno quanto precisa il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali in merito al crollo.

 

Pompei casa gladiatori

 

Quello che ha ceduto sarebbe il solaio in calcestruzzo, pesantissimo, che nei restauri del dopoguerra fu appoggiato insensatamente ai fragili e millenari muri di tufo e che adesso cadendo si è trascinato dietro tutto.

Errori di restauro comprensibili negli anni ’40, ma che da allora, e con il crescere di nuove metodiche di restauro, avrebbero potuto essere ovviati con una politica diversa dei beni culturali e una gestione attenta del patrimonio archeologico.
Ma Pompei è commissariata da anni, c’è stato uno spreco di soldi allucinante, visto come sono stati spesi quei 79 milioni di cui si diceva prima “Denaro mirato in gran parte su spettacolari concerti, iniziative di promozioni, efficaci promozioni, assai meno per il monitoraggio dei rischi e la messa in sicurezza del sito “ scrive il Mattino, quotidiano di Napoli “Proprio a ridosso del teatro, ecco lo spreco e l´abbandono, insieme. Lo spreco di quei grandi prefabbricati trasformati in eterni camerini per attori, lasciati lì, impatto non sostenibile al costo di alcuni milioni di euro, che adesso insistono sull´area del Quadriportico. L´abbandono è quello, a pochissimi metri, dei graffiti antichi, uno di un gladiatore, l´altro raffigura una nave, che stanno sui muri come duemila anni fa: zero copertura sulla parete, zero protezione. Ancora più avanti, prima di svoltare sulla via di Stabia, ecco le assi di legno che chiudono alcuni accessi, sghembe, pericolose, chiodi in evidenza. Sono anomalie su cui indaga, da tre mesi, la Procura della Repubblica di Torre Annunziata. Che stamane, tra l´altro, aprirà un fascicolo «dovuto» sul crollo della Schola Armaturarum.”

La precarietà della casa dei gladiatori che poi ha portato al crollo delle strutture non è una eccezione: si parla di 5000 metri quadri di edifici puntellati, alcuni importantissimi e stupendi come la domus dei Vetti e fra cui si aggirano branchi di cani selvaggi. Perché il degrado di questa regione non si legge solo nei cumuli di spazzatura alti fino ai primi piani dei palazzi. Qui il saccheggio selvaggio di una regione da parte di una intera classe politica è drammaticamente sotto gli occhi di tutti e in ogni settore. Così come è sotto gli occhi di tutti l’attuale inettitudine del ministro Bondi, che, davanti allo sfascio di un sito archeologico unico al mondo e, giustamente, messo sotto accusa per essere il peggiore ministro dei beni culturali della storia della Repubblica, il più asservito alle direttive del premier, piegato ai voleri di Tremonti ed egli stesso nemico giurato della cultura, ha avuto il coraggio di dire «Se avessi la certezza di avere responsabilità in quanto accaduto mi dimetterei. Ma rivendico invece il grande lavoro fatto». Ma quale lavoro??? Quello di aver chiuso teatri, licenziato orchestre, tagliato fondi a enti lirici e al settore del cinema e penalizzato qualsiasi espressione culturale, come stesse riducendo il sapere, la conoscenza, l’arte e la musica, a misura del livello bassissimo di questo governo di incapaci? Un bel lavoro davvero!

Davanti alle proteste di tutti il ministro non sa far altro che sottrarsi alle proprie responsabilità (del resto il suo modello è il cavaliere, non certo Obama) e a proposito del dissesto e dell’abbandono in cui versano i siti archeologici italiani dice che “All’origine della nomina dei commissari straordinari, fra cui quelli di Pompei è che i sovrintendenti non possiedono capacità manageriali che sarebbero indispensabili per l’espletamento di certe funzioni, come ad esempio quella di gestire gli appalti per la manutenzione e il restauro dei monumenti.”

Ma certo, come no!, proprio di un manager hanno bisogno gli scavi di Pompei, che magari si attribuisca uno stipendio principesco e poi usi le briciole per gestire gli appalti da dare ai suoi amici. Perché è proprio questo il modello che abbiamo visto applicato in tutta Italia sotto questo governo. E ieri sera a Ballarò Bondi si lamentava che non si investe abbastanza nel settore dei beni culturali, come se lui non ne fosse responsabile, come non fosse parte in causa! Come se non dipendesse dal ministro difendere risorse e investimenti. Come se il crollo della casa dei gladiatori non fosse stato preceduto da quello della Domus Aurea e da quello di venti metri di mura a Roma, e non faccia parte di un generale stato di abbandono e di degrado non solo dei siti archeologici di grande importanza, ma dei beni culturali e artistici in generale. E’ evidente che se ne deve andare e al più presto, per la sua palese inadeguatezza. Ha ragione Granata di Futuro e Libertà a dire “Riguardo il crollo della Casa dei gladiatori di Pompei, un partito serio deve chiedere le dimissioni di Bondi, perché non può gestire il più straordinario patrimonio culturale del pianeta con la sola attenzione a non disturbare il grande manovratore”.

Certo, nel 1863 quando l’allora direttore degli scavi di Pompei Giuseppe Fiorelli, riorganizzò il lavoro del cantiere archeologico e inventò il metodo dei calchi - grazie al quale oggi possiamo scorgere le espressioni dei volti, le pieghe dei vestiti, le posizioni in cui i Pompeiani furono sorpresi dalla furia del Vesuvio, ma anche le sagome di oggetti, di porte, di armadi, di radici, di piante, di animali - non poteva immaginare che gli uomini del futuro non sarebbero stati alla sua altezza. E oggi sarebbe sorpreso di vedere come le moderne tecnologie e tutta la nostra spocchia non solo non riescano a tutelare quello che lui ha tirato fuori dalla terra, ma addirittura lo stiano distruggendo, con l’incuria e l’ignoranza.

La storia di Pompei è una storia unica e solo chi l’ha visitata, ha girato per le sue strade e le sue piazze, è entrato nelle sue case e nei suoi negozi, ha reso onore ai suoi morti, oggi può provare un dolore indicibile a vedere lo sfascio di una città così straordinaria, bloccata nel tempo, ferma a un caldo giorno d’agosto del 79 dopo Cristo.

Ma non solo il tempo ci ha conservato la città, ma anche una cronaca diretta di quel terribile evento. A narrarci infatti il suo ultimo giorno, la sua atroce agonia sotto l’eruzione del Vesuvio, è Plinio il Giovane, che in due lettere allo storico Tacito racconta l’eruzione del vulcano e la morte, avvelenato dai gas mortali che l’accompagnarono, di suo zio Plinio il vecchio. Autore della fondamentale Naturalis Historia, scienziato e uomo colto, spinto dalla curiosità scientifica, ma anche dall’affetto per degli amici in pericolo, che risiedevano proprio sul mare, vicino ad Ercolano, Plinio il Vecchio si era messo con una nave per mare ed era sbarcato sulle rive minacciate e poi era stato coinvolto e travolto nel disastro generale.

Vorrei che tutti quelli che provano indifferenza per il crollo di questo edificio, come non fosse una cosa importante, potessero leggere queste pagine, scritte da un testimone diretto di quello straordinario e tragico evento, da uno che ha vissuto quella paura e quel pericolo e che racconta di quei momenti con tanta semplicità, che fa sembrare quella lettera di 2000 anni fa come la cronaca di un giornale di oggi.

Credo che comincerebbero a capire che la storia non è solo una materia che si studia a scuola su libri noiosi pieni di date e di nomi, ma è un tessuto vivo di avvenimenti che appartengono ad ogni uomo, è una parte di ciascuno di noi, come un frammento del nostro DNA. E che gli uomini di 2000 anni fa erano esattamente come noi, avevano le stesse aspirazioni, le stesse paure, gli stessi desideri, le stesse fantasie. Avevano letti e materassi e cuscini come i nostri e sedie poltrone e tavoli e piatti e bicchieri e l’acqua corrente nei tubi a casa e avevano la passione della moda e quella per lo sport, e amavano la buona tavola e scrivevano sui muri messaggi d’amore, insulti, spot elettorali e massime politiche e perfino separatiste. E avevano il gusto del bello e strade lastricate e comode e giardini e acquedotti e fogne che ancora funzionano e teatri e terme.

E allora non potranno più essere indifferenti, ma proveranno dispiacere a pensare che tutto questo mondo è scomparso in un momento e che quella città piena di vita nella quale tanti uomini e donne avevano vissuto, avevano amato, sofferto, goduto, è diventata improvvisamente la loro tomba, sigillata e coperta da un pesante sipario di cenere. E che una di quelle case, sopravvissuta a quel disastro e a 2000 anni di silenzio, era la palestra in cui si allenavano i gladiatori, era quella casa che la nostra incuria ha lasciato crollare in un cumulo di pietre.

E sarà loro chiaro quanto sia insostituibile ogni minima cosa che si rovini o si perda, e quanto sia importante preservare quel sito, non solo come straordinaria memoria della storia e della gente del nostro paese, ma come esempio e monito.

E capiranno perché lo sfascio di quella testimonianza storica è l’immagine speculare dell’indegno e miserabile modo in cui il nostro paese sta finendo i suoi giorni e distruggendo la propria identità di popolo. E saranno consapevoli anche che noi non rischiamo di finire coperti di cenere o di lava come quei cittadini romani, ma di fango, di melma e di sterco, che una classe politica marcia e corrotta ci sta rovesciando addosso.

 

Barbara Fois

 

Pompei cartina vesuvio

 

PRIMA LETTERA DI PLINIO IL GIOVANE A TACITO

Mi chiedi che io ti esponga la morte di mio zio, per poterla tramandare con una maggiore obiettività ai posteri. Te ne ringrazio, in quanto sono sicuro che, se sarà celebrata da te, la sua morte sarà destinata a gloria immortale. Quantunque infatti, egli sia deceduto nel disastro delle più incantevoli plaghe, come se fosse destinato a vivere sempre - insieme a quelle genti ed a quelle città- proprio in virtù di quell'indimenticabile sciagura, quantunque abbia egli stesso composto una lunga serie di opere che rimarranno, tuttavia alla perennità della sua fama recherà un valido contributo l'immortalità dei tuoi scritti. Personalmente io stimo fortunati coloro ai quali per dono degli dei fu concesso o di compiere imprese degne di essere scritte o di scrivere cose degne di essere lette, fortunatissimi poi coloro ai quali furono concesse entrambe le cose. Nel novero di questi ultimi sarà mio zio, in grazia dei suoi libri e in grazia dei tuoi. Tanto più volentieri perciò accolgo l'incombenza che tu mi proponi, anzi te lo chiedo insistentemente.

Era a Miseno e teneva personalmente il comando della flotta. Il 24 agosto, verso l'una del pomeriggio, mia madre lo informa che spuntava una nube fuori dell'ordinario sia per la grandezza sia per l'aspetto. Egli dopo aver preso un bagno di sole e poi un altro nell'acqua fredda, aveva fatto uno spuntino stando nella sua brandina da lavoro ed attendeva allo studio; si fa portare i sandali e sale in una località che offriva le migliori condizioni per contemplare il prodigio. Si elevava una nube, ma chi guardava da lontano non riusciva a precisare da quale montagna [si seppe poi che era il Vesuvio]: nessun'altra pianta meglio del pino ne potrebbe riprodurre la forma. Infatti slanciatosi in su in modo da suggerire l'idea di un altissimo tronco, si allargava poi in quelli che si potrebbero chiamare dei rami, credo che il motivo risiedesse nel fatto che, innalzata dal turbine subito dopo l'esplosione e poi privata del suo appoggio quando quello andò esaurendosi, o anche vinta dal suo stesso peso, si dissolveva allargandosi; talora era bianchissima, talora sporca e macchiata, a seconda che aveva trascinato con sè terra o cenere.

Nella sua profonda passione per la scienza, stimò che si trattasse di un fenomeno molto importante e meritevole di essere studiato più da vicino. Ordina che gli si prepari una liburnica e mi offre la possibilità di andare con lui se lo desiderassi. Gli risposi che preferivo attendere ai miei studi e, per caso, proprio lui mi aveva assegnato un lavoro da svolgere per iscritto. Mentre usciva di casa, gli venne consegnata una lettera da parte di Rettina, moglie di Casco, la quale, terrorizzata dal pericolo incombente (infatti la sua villa era posta lungo la spiaggia della zona minacciata e l'unica via di scampo era rappresentata dalle navi), lo pregava che la strappasse da quel frangente così spaventoso. Egli allora cambia progetto e ciò, che aveva incominciato per interesse scientifico, affronta per l'impulso della sua eroica coscienza. Fa uscire in mare delle quadriremi e vi sale egli stesso, per venire in soccorso non solo a Rettina ma a molta gente, poichè quel litorale in grazia della sua bellezza, era fittamente abitato.

Si affretta colà donde gli altri fuggono e punta la rotta e il timone proprio nel cuore del pericolo, così immune dalla paura da dettare e da annotare tutte le evoluzioni e tutte le configurazioni di quel cataclisma, come riusciva a coglierle successivamente con lo sguardo. Oramai, quanto più si avvicinavano, la cenere cadeva sulle navi sempre più calda e più densa, vi cadevano ormai anche pomici e pietre nere, corrose e spezzate dal fuoco, ormai si era creato un bassofondo improvviso e una frana della montagna impediva di accostarsi al litorale.

Dopo una breve esitazione, se dovesse ripiegare all'indietro, al pilota che gli suggeriva quell'alternativa, tosto replicò: - "La fortuna aiuta i prodi; dirigiti sulla dimora di Pomponiano".

Questi si trovava a Stabia; dalla parte opposta del golfo (giacchè il mare si inoltra nella dolce insenatura formata dalle coste arcuate a semicerchio); colà, quantunque il pericolo non fosse ancora vicino, siccome però lo si poteva scorgere bene e ci si rendeva conto che, nel suo espandersi era ormai imminente, Pomponiano aveva trasportato sulle navi le sue masserizie, determinato a fuggire non appena si fosse calmato il vento contrario. Per mio zio invece questo era allora pienamente favorevole, cosi che vi giunge, lo abbraccia tutto spaventato com'era, lo conforta, gli fa animo, per smorzare la sua paura con la propria serenità, si fa calare nel bagno: terminata la pulizia prende posto a tavola e consuma la sua cena con un fare gioviale o, cosa che presuppone una grandezza non inferiore, recitando la parte dell'uomo gioviale.

Nel frattempo dal Vesuvio risplendevano in parecchi luoghi delle larghissime strisce di fuoco e degli incendi che emettevano alte vampate, i cui bagliori e la cui luce erano messi in risalto dal buio della notte. Egli, per sedare lo sgomento, insisteva nel dire che si trattava di fuochi lasciati accesi dai contadini nell'affanno di mettersi in salvo e di ville abbandonate che bruciavano nella campagna. Poi si abbandonò al riposo e riposò di un sonno certamente genuino. Infatti il suo respiro, a causa della sua corpulenza, era piuttosto profondo e rumoroso, veniva percepito da coloro che andavano avanti e indietro sulla soglia. Senonchè il cortile da cui si accedeva alla sua stanza, riempiendosi di ceneri miste a pomice, aveva ormai innalzato tanto il livello che, se mio zio avesse ulteriormente indugiato nella sua camera, non avrebbe più avuto la possibilità di uscirne. Svegliato, viene fuori e si ricongiunge al gruppo di Pomponiano e di tutti gli altri, i quali erano rimasti desti fino a quel momento. Insieme esaminano se sia preferibile starsene al coperto o andare alla ventura allo scoperto. Infatti, sotto l'azione di frequenti ed enormi scosse, i caseggiati traballavano e, come se fossero stati sbarbicati dalle loro fondamenta, lasciavano l'impressione di sbandare ora da una parte ora dall'altra e poi di ritornare in sesto. D'altronde all'aperto cielo c'era da temere la caduta di pomici, anche se erano leggere e corrose; tuttavia il confronto tra questi due pericoli indusse a scegliere quest'ultimo. In mio zio una ragione predominò sull'altra, nei suoi compagni una paura s'impose sull'altra. Si pongono sul capo dei cuscini e li fissano con dei capi di biancheria; questa era la loro difesa contro tutto ciò che cadeva dall'alto.

Altrove era già giorno, là invece era una notte più nera e più fitta di qualsiasi notte, quantunque fosse mitigata da numerose fiaccole e da luci di varia provenienza. Si trovò conveniente di recarsi sulla spiaggia ed osservare da vicino se fosse già possibile tentare il viaggio per mare; ma esso perdurava ancora sconvolto ed intransitabile. Colà, sdraiato su di un panno steso a terra, chiese a due riprese dell'acqua fresca e ne bevve. Poi delle fiamme ed un odore di zolfo che preannunciava le fiamme spingono gli altri in fuga e lo ridestano. Sorreggendosi su due semplici schiavi riuscì a rimettersi in piedi, ma subito stramazzò, da quanto io posso arguire, l'atmosfera troppo pregna di cenere gli soffocò la respirazione e gli otturò la gola, che era per costituzione malaticcia, gonfia e spesso infiammata.

Quando riapparve la luce del sole (era il terzo giorno da quello che aveva visto per ultimo) il suo cadavere fu ritrovato intatto, illeso e rivestito degli stessi abiti che aveva indossati: la maniera con cui si presentava il corpo faceva più pensare ad uno che dormisse che non ad un morto. Frattanto a Miseno io e mia madre... ma questo non interessa la storia e tu non hai espresso il desiderio di essere informato di altro che della sua morte. Dunque terminerò.

Aggiungerò solo una parola: che ti ho esposto tutte circostanze alle quali sono stato presente e che mi sono state riferite immediatamente dopo, quando i ricordi conservano ancora la massima precisione. Tu ne stralcerai gli elementi essenziali: sono infatti cose ben diverse scrivere una lettera od una composizione storica, rivolgersi ad un amico o a tutti.

 

Pompei eruzione vesuvio

SECONDA LETTERA DI PLINIO IL GIOVANE A TACITO

Mi dici che la lettera che io ti ho scritta, dietro tua richiesta, sulla morte di mio zio, ti ha fatto nascere il desiderio di conoscere, dal momento in cui fui lasciato a Miseno (ed era precisamente questo che stavo per raccontarti, quando ho troncato la mia relazione), non solo quali timori ma anche quali frangenti io abbia dovuto affrontare. "Anche se il semplice ricordo mi causa in cuore un brivido di sgomento... incomincerò".

Dopo la partenza di mio zio, spesi tutto il tempo che mi rimaneva nello studio, dato che era stato proprio questo il motivo per cui mi ero fermato; poi il bagno, la cena ed un sonno agitato e breve. Si erano già avuti per molti giorni dei leggeri terremoti, ma non avevano prodotto molto spavento, essendo un fenomeno ordinario in Campania, quella notte invece le scosse assunsero una tale veemenza che tutto sembrava non muoversi, ma capovolgersi.

Mia madre si precipita nella mia stanza: io stavo alzandomi con il proposito di svegliarla alla mia volta nell'eventualità che dormisse. Ci mettemmo a sedere nel cortile della nostra abitazione: esso con la sua modesta estensione separava il caseggiato dal mare. A questo punto non saprei dire se si trattasse di forza d'animo o di incoscienza (non avevo ancora compiuto diciotto anni!): domando un libro di Tito Livio e, come se non mi premesse altro che di occupare il tempo, mi dò a leggerlo ed a continuare gli estratti che avevo incominciati.

Ed ecco sopraggiungere un amico di mio zio, che era da poco arrivato dalla Spagna per incontrarsi con lui; quando vede che io e mia madre ce ne stiamo seduti e che io attendo niente meno che a leggere, fa un'energica paternale a mia madre per la mia inettitudine e a me per la mia noncuranza. Con tutto ciò io continuo a concentrarmi nel mio libro come prima.
Il sole era già sorto da un'ora e la luce era ancora incerta e come smorta. Siccome le costruzioni che ci stavano all'intorno erano ormai malconce, anche se eravamo in un luogo scoperto -che era però angusto- c'era da temere che, qualora crollassero, ci portassero delle conseguenze gravi e ineluttabili. Soltanto allora ci parve opportuno di uscire dalla cittadina; ci viene dietro una folla sbalordita, la quale -seguendo quella contraffazione dell'avvedutezza che è tipica dello spavento- preferisce l'opinione altrui alla propria e con la sua enorme ressa ci incalza e ci spinge mentre ci allontaniamo.

Una volta fuori dell'abitato ci fermiamo. Là diventiamo spettatori di molti fatti sbalorditivi, ci colpiscono molti particolari che incutono terrore. Così i carri che avevamo fatto venire innanzi, sebbene la superficie fosse assolutamente livellata, sbandavano nelle più diverse direzioni e non rimanevano fermi al loro posto neppure se venivano bloccati con pietre. Inoltre vedevamo il mare che si riassorbiva in se stesso e che sembrava quasi fatto arretrare dalle vibrazioni telluriche. Senza dubbio il litorale si era avanzato e teneva prigionieri nelle sue sabbie asciutte una quantità di animali marini. Dall'altra parte una nube nera e terrificante, lacerata da lampeggianti soffi di fuoco che si esplicavano in linee sinuose e spezzate, si squarciava emettendo delle fiamme dalla forma allungata: avevano l'aspetto dei fulmini ma ne erano più grandi.

A questo punto si rifà avanti l'amico spagnolo e ci incalza con un tono più inquieto e più stringente:
- "Se tuo fratello, se tuo zio vive, vi vuole incolumi, se è morto, ha voluto che voi gli sopravviveste. Perciò perchè indugiate a mettervi in salvo?".

Gli rispondiamo che noi non avremmo mai accettato di provvedere alla nostra salvezza finchè non avevamo nessuna notizia della sua. Egli non perde tempo, ma si getta in avanti correndo a più non posso si porta fuori dal pericolo. Poco dopo quella nube calò sulla terra e ricoperse il mare: aveva già avvolto e nascosto Capri ed aveva già portato via ai nostri sguardi il promontorio di Miseno. Allora mia madre a scongiurarmi, ad invitarmi, ad ordinarmi di fuggire in qualsiasi maniera; diceva che io, ancora giovane, ci potevo riuscire, che essa invece, pesante per l'età e per la corporatura avrebbe fatto una bella morte se non fosse stata causa della mia. Io però risposi che non mi sarei salvato senza di lei; poi presala per mano, la costringo ad accelerare il passo. Mi ubbidisce a malavoglia e si accusa di rallentare la mia marcia. Incomincia a cadere cenere, ma è ancora rara. Mi volgo indietro: una fitta oscurità ci incombeva alle spalle e, riversandosi sulla terra, ci veniva dietro come un torrente.

- "Deviamo, le dico, finchè ci vediamo ancora, per evitare di essere fatti cadere sulla strada dalla calca che ci accompagna e calpestati nel buio".

Avevamo fatto appena a tempo a sederci quando si fece notte, non però come quando non c'è luna o il cielo è ricoperto da nubi, ma come a luce spenta in ambienti chiusi. Avresti potuto sentire i cupi pianti disperati delle donne, le invocazioni dei bambini, le urla degli uomini: alcuni con le grida cercavano di richiamare ed alle grida cercavano di rintracciare i genitori altri i figli, altri i coniugi rispettivi; gli uni lamentavano le loro sventure, gli altri quelle dei loro cari taluni per paura della morte, si auguravano la morte, molti innalzavano le mani agli dei, nella maggioranza si formava però la convinzione che ormai gli dei non esistessero più e che quella notte sarebbe stata eterna e l'ultima del mondo. Ci furono di quelli che resero più gravosi i pericoli effettivi con notizie spaventose che erano inventate e false. Arrivavano di quelli i quali riferivano che a Miseno la tale costruzione era crollata, che la tal altra era divorata dall'incendio: non era vero ma la gente ci credeva.

Ci fu una tenue schiarita, ma ci sembrava che non fosse la luce del giorno ma un preannuncio dell'avvicinarsi del fuoco. Il fuoco c'era davvero, ma si fermò piuttosto lontano; poi di nuovo il buio e di nuovo cenere densa e pesante. Tratto tratto ci alzavamo in piedi e ce la scuotevamo di dosso; altrimenti ne saremmo stati coperti e saremmo anche rimasti schiacciati sotto il suo peso. Potrei vantarmi che, circondato da così gravi pericoli, non mi sono lasciato sfuggire nè un gemito nè una parola meno che coraggiosa, se non fossi stato convinto che io soccombevo con l'universo e l'universo con me: conforto disperato, è vero, ma pure grande nella mia qualità di essere soggetto alla morte.I1 Finalmente quella oscurità si attenuò e parve dissiparsi in fumo o in vapori, ben presto sottentrò il giorno genuino e risplendette anche il sole, ma livido, come suole apparire durante le eclissi. Agli occhi ancora smarriti tutte le cose si presentavano con forme nuove, coperte di una spessa coltre di cenere come se fosse stata neve. Ritornati a Miseno, e preso quel po' di ristoro che ci fu possibile, passammo tra alternative di speranza e di timore una notte ansiosa ed incerta. Era però il timore a prevalere; infatti le scosse telluriche continuavano ed un buon numero di individui, alienati, dileggiavano con spaventevoli profezie le disgrazie loro ed altrui. Noi però, quantunque avessimo provato personalmente il pericolo e ce ne aspettassimo ancora, non venimmo nemmeno allora alla determinazione di andarcene prima di ricevere notizie dello zio.

Ti mando questa relazione perchè tu la legga, non perché tu la scriva, dato che non s'addice affatto al genere storico; attribuisci poi la colpa a te -evidentemente in quanto me l'hai richiesta- se non ti parrà addirsi neppure a quello epistolare.

 


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