Quale competitività

di Francesco Baicchi - 29/07/2012
La vicenda dell'ILVA di Taranto non è solo l'ultimo gravissimo caso di indifferenza verso la salute dei lavoratori e la salvaguardia ambientale in generale, ma anche l'ennesima riprova della debolezza del sistema produttivo italiano.

Negli scorsi anni le cronache hanno registrato frequentemente casi in cui la Magistratura si è dovuta esprimere in merito alla nocività delle attività realizzate in fabbrica. Oltre alle tragedie della ACNA di Seveso e della Thyssen-Krupp, sentenze in questo senso sono state pronunciate relativamente al Petrolchimico di Marghera, alla Fincantieri, alla Eternit, solo per citarne alcune.

E ogni volta è scattata la minaccia della chiusura degli stabilimenti e della conseguente perdita di posti di lavoro, in genere motivata dalla eccessiva onerosità degli interventi necessari a rendere l'attività aziendale compatibile con l'ambiente e la salute dei lavoratori.

Delle aziende piccole si parla molto meno, ma sempre più numerose sono quelle che, poste di fronte all'obbligo di adeguare gli impianti ai criteri di sicurezza, minacciano e qualche volta ricorrono alla chiusura.

E' una forma odiosa di ricatto, cui non sempre i lavoratori e i loro rappresentanti sindacali riescono, comprensibilmente, a rispondere con efficacia.

La scelta fra perdere la salute e perdere il lavoro, forse per sempre vista la situazione, è in effetti insostenibile e impone a tutti, magistrati, amministratori e sindacalisti, decisioni dolorose quanto inevitabili. Così spesso prevale la scelta del rinvio, della tolleranza, che però non può arrivare fino alla complicità, come qualcuno pretenderebbe.

Come si arriva a queste situazioni, normalmente conseguenza di decenni di mancati interventi?

Nel caso dell'ILVA sono state individuate responsabilità precise a carico di alcuni dirigenti, ma in generale è difficile ipotizzare una incapacità tecnica delle aziende di applicare le normali misure di salvaguardia. Siamo dunque di fronte a scelte consapevoli, dovute alla ricerca della massima compressione dei costi di produzione.

Nel caso di stabilimenti datati, in cui l'investimento è ampiamente ammortizzato, il costo della chiusura diviene agevolmente sopportabile, specialmente se si pensa di poter successivamente proporre sul mercato immobiliare l'area risultante, magari grazie a qualche complicità nelle strutture amministrative locali. E il trasferimento della produzione in Paesi a bassissimo costo della mano d'opera è una tentazione sempre più ricorrente.

Questo sottintende un legame molto labile con il territorio circostante e con il suo tessuto sociale e professionale, che rende indifferente la localizzazione degli impianti, e una competitività affidata esclusivamente al prezzo. Forse oggi si 'compra italiano' non più per il design, l'innovatività e la qualità che un tempo caratterizzavano i nostri prodotti, ma solo perché in alcuni casi costiamo meno delle produzioni asiatiche?

Se fosse così dovremmo attribuirne la responsabilità alla mancanza tradizionale di una politica economica seria, allo scarso scarso spazio nei bilanci pubblici per l'incentivazione della ricerca, alla scarsa propensione del sistema bancario a finanziare idee innovative, alla incapacità dei nostri imprenditori a valorizzare la professionalità e la competenza dei propri dipendenti, mentre altrove si cercano (anche in periodi di crisi) strumenti per 'fidelizzare' i collaboratori e non perderne il contributo.

Queste caratteristiche sembrano purtroppo ampiamente diffuse nel nostro sistema produttivo (specie fra le aziende maggiori) e rendono, temo, aleatoria qualunque ipotesi di ripresa a breve, indebolendoci sui mercati finanziari internazionali molto di più della presenza del famigerato 'articolo 18', contro cui tanto si è accanito il governo 'tecnico' di Mario Monti.

La 'ripresa' europea passa per il recupero di una competitività basata sulle caratteristiche (anche immateriali: design, logistica, servizio, immagine) del prodotto, che giustifichino un eventuale differenziale di prezzo rispetto a prodotti importati da Paesi i cui costi di produzione sono inaccettabili per la nostra cultura, non solo sul piano salariale, ma anche (appunto) dell'impatto ambientale e sociale.

Altri Paesi europei mi sembra operino in tal senso, mentre molta parte del mondo politico italiano vede in Marchionne e nelle sue strategie di aggressione ai diritti sindacali il prototipo dell'imprenditore di successo.

Forse quello che ci chiedono 'i mercati' non è di essere sempre più simili a un Paese del terzo o quarto mondo, ma solo di credere concretamente in un futuro migliore, e di investire per realizzarlo. Magari sottraendo finalmente risorse agli sprechi, alla corruzione, alla malavita organizzata, alla evasione fiscale.

29 aprile 2013

Costruiamo l'alternativa al governo Berlusconi

Giorgio Cremaschi-www.micromega.net
13 marzo 2014

Quello che non c'è

Francesco Baicchi
30 aprile 2013

La coerenza

Francesco Baicchi