Giù la maschera

di Ascanio Celestini - comune-info.net - 17/02/2022
Ci siamo camuffati e abbiamo aspettato che l’animale cadesse nella trappola. La maschera, infilata all’inizio della caccia, finalmente ce la togliamo dalla faccia

Dario Fo ci ricorda che «è addirittura all’origine della storia degli uomini che troviamo le maschere e con esse il travestimento». Maschere che avevano tante funzioni, spesso non comprensibili da noi a distanza di secoli. In un festival in Sicilia un mimo iraniano mi ha raccontato la sua versione. Secondo lui sono stati i popoli cacciatori a inventarsele. Immobili in mezzo alle frasche con una mano mostravano il cibo per attirare l’uccello, con l’altra si tenevano pronti ad afferrarlo.

Ovviamente l’animale non si sarebbe fatto fregare facilmente, così il cacciatore si mimetizzava sporcandosi di terra e coprendosi di foglie. Pure Dario Fo pare avvalorare questa tesi. «Una delle più antiche testimonianze dell’uso della maschera – scrive nel Manuale minimo dell’attore – la troviamo addirittura nel terziario, sulle pareti della grotta “des deux frères”, nei Pirenei, sul versante francese. Si tratta di una scena di caccia».

Nel disegno c’è un branco di capre, ma «se osserviamo con maggiore attenzione ci accorgiamo che una di queste capre, invece di zampe con zoccoli, ha gambe e piedi da uomo. E non quattro, ma due sole». Certamente non basta mascherarsi da animale per trasformarsi in una bestia. Fo ipotizza che bisogna prenderne l’odore e anche imitare i movimenti.

Il mimo iraniano mi disse che il mascheramento implica anche una modificazione della concezione del tempo. Un primitivo che vive raccogliendo i frutti si adegua ai ritmi della terra. Prima impara a distinguere i vegetali commestibili, da quelli cattivi. Poi scopre la relazione tra la semina e il raccolto. La natura gli fa inventare il calendario. Ma per il cacciatore le stagioni hanno un andamento che segue regole differenti. Meno codificabili. Deve imparare ad aspettare. L’animale può cadere in trappola dopo un attimo o tenerlo in attesa per ore.
Dalla grotta preistorica nella quale il cavernicolo ha disegnato se stesso travestito da capra ci ritroviamo nel tempo presente. Tanti cavernicoli pandemici che negli ultimi due anni si sono camuffati confondendosi tra la folla di maschere.

L’animale non è una preda da scannare, ma un microscopico nemico che dobbiamo tenere lontano dalla bocca e dal naso. Così piccolo che non riusciamo a vederlo. Invece di trovarci soli in mezzo alle bestie come l’antico disegno nella caverna, ci incrociamo in strada o a scuola, sugli autobus o nei supermercati. Siamo tanti cacciatori mascherati. Anche noi abbiamo cambiato i nostri gesti. Le mani hanno smesso di toccare altre mani. Gli abbracci sono scomparsi. È svanita nel nulla la mossa di bagnarsi i polpastrelli per voltare una pagina o aprire i lembi di una sportina di plastica in un negozio.

Qualcosa ha sostituito il contatto con gli altri e con gli oggetti. Un’azione imparata da ragazzini, imposta dai genitori prima dei pasti. «Ti sei lavato le mani?» diceva la mamma quando arrivavamo a tavola. E magari sbuffando andavamo al lavandino a compiere il nostro noioso dovere. Lo stesso che negli ultimi due anni è diventato un impegno continuo. Fatto con ansia. Ci ha screpolato la pelle da subito mischiandoci sopra crema emolliente e gel igienizzante.

Come il primitivo cacciatore ci siamo camuffati e abbiamo aspettato che l’animale cadesse nella trappola. L’abbiamo afferrato per un attimo stordendolo col vaccino, poi l’abbiamo colpito di nuovo con la seconda dose, con la terza, con i farmaci. La maschera che ci siamo infilati all’inizio della caccia non ce la siamo tolta fino ad ora. Ecco! Finalmente ce la togliamo dalla faccia. L’animale è stato catturato. Non definitivamente, ma l’abbiamo ferito e possiamo smascherarci.

Nel frattempo abbiamo imparato nuovi gesti dei quali non ci libereremo da un momento all’altro. Sono sovrapposti ai nostri proprio come si fa in teatro quando si lavora in maschera. Dario Fo ce lo ricorda, parlando di Commedia dell’Arte, che i personaggi sono zoomorfi, ma non più selvatici. Sono gli «animali da cortile, domestici o addomesticati» secondo «un significato sociale che si riferisce alla bassa corte» cioè i servi. Perché «nobili, cavalieri e dame non portano mai maschere». E già! In questi due anni di mascheramento abbiamo imparato che non siamo tutti uguali davanti alla bestia che stiamo cacciando.

La nascita del teatro moderno ci viene raccontata come un grande mascheramento. Figlio di antichi rituali che portano in scena la battaglia per la sopravvivenza, gli incubi della notte, i misteri dell’inconscio. Un rito «dove l’io si perde e viene sopraffatto» sostiene Andrea Gareffi. Ma dove «tutti sono uguali tra di loro in quanto tutti sono inferiori al principe».

I primi giorni della pandemia eravamo in balia della bestia feroce. Ci siamo armati e mascherati come primitivi cacciatori. Ci siamo nascosti, difesi, siamo rimasti feriti e abbiamo contato i nostri morti. Ora togliamo la maschera e ci guardiamo attorno cominciando a tirare le somme.
Tutti uguali davanti al virus? No. Ce lo dice Dario Fo che i «nobili dominanti, i grandi mercanti e i banchieri» non portano maschere.

 

Nella foto di Ferdinando Kaiser, Franco J., attore e pittore, con la mascherina che riproduce un suo lavoro raffigurante il “Bacco” di Michelangelo in una fantasmagoria di colori

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