Visita al CIE di Ponte Galeria

di Pancho Pardi - 25/07/2011
Con la legge sul reato di immigrazione clandestina e con i CIE lo Stato Italiano si è cacciato in una condizione di plateale incostituzionalità. Il divieto ai giornalisti dimostra che, con un residuo di pudore, se ne vergogna

Da fuori ha l’aspetto di un carcere. Non basta l’assenza delle garitte d’angolo a sfumare la sensazione. Mura di cemento prefabbricato, striscia d’asfalto lungo il profilo esterno, cancellate di ferro, scritte che annunciano la sorveglianza militare. Siamo lungo il lato sud dell’autostrada che porta a Fiumicino. Gli spazi dilatatati intorno, ritmati da parcheggi, circondano i fabbricati sparsi della nuova Fiera di Roma.

Mentre aspettiamo di entrare, la notizia del nostro arrivo mobilita i reclusi che cominciano a urlare e qualcuno di loro sale sul tetto piatto del loro reparto, osservati ma non cacciati dal personale di polizia. Sapremo dopo all’uscita che un giornalista è riuscito a entrare in contatto con uno dei reclusi sul tetto e a improvvisare un’intervista volante ascoltata dai presenti rimasti fuori dal cancello; il migrante sul tetto è chiuso da cinque mesi lì dentro e come tutti gli altri non sa quando uscirà..

La sorveglianza esterna tocca all’esercito, quella interna alla polizia, mentre la gestione è della Cooperativa Sociale Auxilium che ha sostituito da poco più di un anno, tramite gara, la Croce Rossa. Non possiamo farci spiegare i criteri della gara e dovremo nel prossimo futuro colmare la lacuna.

All’ingresso ci vengono mostrati i locali di servizio, semplici, funzionali, disadorni. Fino a qui siamo nello spazio controllato dalla polizia, illustrato dal dirigente del comparto Immigrazione. Poi si accede agli spazi gestiti da Auxilium, prima al reparto donne. Un corridoio tra due alte cancellate ci rivela due spazi rettangolari di 10 metri per 20 il cui lato opposto è limitato dall’edificio degli alloggi. Le cancellate hanno il lato superiore, all’altezza di circa tre metri, guarnito da una sommità inclinata verso l’interno per impedire l’uscita a chi riesca ad arrampicarsi in alto. Il piano di cemento è spazzato. Le barriere interne degli spazi recintati sono aperte e le donne vi possono circolare. Qualche panno steso, qualche gatto vagante o addormentato. Unico elemento di disordine un materasso, foderato di plastica, appoggiato all’aperto lungo la parete esterna dell’edificio.

Vediamo donne nere e cinesi. Le prime sono molto più comunicative e ci raccontano la varietà delle loro peripezie: allontanamenti dai gruppi familiari, separazioni dai figli, anche in piccolissima età, inspiegabili trasferimenti, incomprensibili pratiche amministrative, difficoltà di collegamento con la difesa. Appaiono in buona salute e dopo l’incertezza iniziale si diffondono in narrazioni particolari e in richieste di aiuto specifico. Non fanno cenno a brutalità ma lamentano l’incertezza del destino. Non sanno perché sono lì, né quando usciranno. Dai racconti emerge che alcune di loro sono già state identificate, se non altro a causa di precedenti esperienze carcerarie, ma ciò non è sufficiente a farle uscire. Vedremo che il fenomeno è generale tra gli uomini. Le cinesi sono silenziose e non cercano contatti. Le parlamentari presenti possono entrare negli spazi abitati; i parlamentari si astengono.

La vita quotidiana è vuota. Al contrario del carcere, dove, nei debiti spazi, si può lavorare e in limitata misura anche giocare, qui non si può fare niente. L’assenza di sorveglianza adeguata costringe a privare le recluse, e i reclusi, di qualsiasi supporto materiale. Il dirigente ci fa l’esempio di un banale biliardino: impossibile perché le aste metalliche, divelte, potrebbero diventare armi contundenti. Chi sta costretto dentro è condannato all’inedia più avvilente.

Lasciamo il reparto donne dopo scambi di biglietti con note rudimentali e numeri di telefono.

Prima di passare al reparto uomini, ci vengono mostrati i locali ad uso sanitario e di ausilio psicologico. Conosciamo dottori e infermieri, uomini e donne che si presentano come persone serie e motivate.

Al reparto uomini l’impossibilità di un numero adeguato di sorveglianti ci obbliga a parlare con tutti attraverso le cancellate. E’ una selva di racconti smozzicati. Ognuno ha il suo caso. Genitori, coniugi e figli dispersi, famiglie in attesa in altri paesi europei, molti giurano di volere l’espulsione per poter raggiungere le destinazioni definitive. Registriamo decine di nomi e di numeri, soprattutto dei loro avvocati, insufficienti a far fronte alle necessità. Non possiamo vedere gli alloggi. Dai colloqui emerge il dato impressionante: circa il 70% dei presenti viene da un’esperienza carceraria. Hanno subito processi e condanne; le hanno scontate. E’ difficile ammettere che non siano identificati. Non sono sconosciuti qui costretti solo per l’identificazione e la successiva espulsione. Perché sono reclusi in questo limbo, senza le garanzie del carcere e le prerogative di chi ha pagato il conto alla giustizia?

Ci viene spiegato che l’identificazione non è completa se i rispettivi consolati o ambasciate non confermano nazionalità e dati anagrafici. Lo Stato sembra non rendersi conto del pasticcio prodotto. La legge stabilisce il reato di clandestinità: punisce una condizione e non un atto. E reclude senza processo i colpevoli, ma si arrende di fronte alla difficoltà di identificare i già identificati. Il terrore di tutti i reclusi è la prospettiva dei diciotto mesi di attesa nei CIE posti dal recente provvedimento sui rimpatri. Per cogliere l’enormità dell’invenzione ricordo che quando ho fatto il militare nel ’68, quarantatre anni fa, il servizio era già stato ridotto a quindici mesi dai diciotto originari dei primi decenni repubblicani. Anche se tutto questo stato di cose fosse privo di violenze sui corpi e di intimidazione sulle menti, resta l’evidenza di una enorme mancanza di senso, salvo forse quello di lusingare i peggiori istinti dell’elettorato più retrivo..

La brutalità resta fuori dai racconti, ridotti all’essenziale. Ma non si può trascurare il dubbio che l’eventuale reticenza nasca dal timore di ritorsioni. Subito dopo incontriamo tre reclusi, separati dagli altri perché vittime di violenze interne: considerato spia dei sorveglianti uno di loro è stato ustionato dal lancio di un materasso incendiato. Lui e suoi due amici sono stati ricoverati in un altro reparto. Non possono tornare con gli altri, vorrebbero andarsene ma non possono. Anche loro, come gli altri reclusi senza prospettiva certa di uscita.

Fuori, i giornalisti, cui una circolare vieta la conoscenza diretta di questo mondo, ci aspettano per avere il nostro resoconto.

Conclusione provvisoria. I Centri di Identificazione ed Espulsione hanno sostanziali difficoltà a realizzare il compito che la legge gli attribuisce. Non possono identificare neanche chi è già stato identificato e di conseguenza non possono espellerlo. Con la legge sul reato di immigrazione clandestina e con i CIE lo Stato Italiano si è cacciato in una condizione di plateale incostituzionalità. Il divieto ai giornalisti dimostra che, con un residuo di pudore, se ne vergogna. Ma l’azione dell’opinione pubblica non può accontentarsi della vergogna dello Stato né implicita né esplicita.

In Parlamento e nella società deve essere rafforzata l’iniziativa per porre fine in modo definitivo a questo stato di cose, incivile nella sua realtà e incostituzionale nel suo significato.

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