IO STO CON ROBERTO SAVIANO

di Massimiliano Perna –ilmegafono.org - 21/10/2008
Il clan dei casalesi sta progettando un attentato esplosivo nei confronti dello scrittore Roberto Saviano, autore di “Gomorra”, e della sua scorta- Saviano, stanco e solo, con rabbia annuncia: “Voglio lasciare l’Italia”

Roberto è stanco, è solo e vuole tornare a vivere come un normale ragazzo della sua età, almeno per un po’. Roberto vuole tornare nella realtà quotidiana, vuole respirarla, perché solo così potrà raccontarla e descriverla a modo suo, cioè evidenziando la verità, liberandola dalla spessa coltre di mistificazione ed ipocrisia che la copre. Roberto è Roberto Saviano, giornalista e scrittore, autore di “Gomorra”, il libro che ha smascherato e mostrato a tutto il mondo il “Sistema”, vale a dire il dominio economico e sociale della camorra e, in particolare, del clan dei casalesi, in Campania e nel resto d’Italia. Un libro denuncia, a cui sono seguiti numerosi articoli in cui il giovane autore ha attaccato i boss, li ha ridicolizzati, ha chiesto alla gente di alzare la testa, alle istituzioni di intervenire. E i casalesi si sono trovati nella morsa militare di uno Stato che si è fatto comunque sentire con colpevole ritardo. Essi sono caduti nella gabbia mediatica di un’attenzione che mai, prima d’ora, avevano ricevuto. Si è cominciato a parlare di Napoli, di Casal di Principe, si sono scoperti eroi e martiri che erano stati ignorati, dimenticati, perché impegnati in una battaglia solitaria contro un nemico di cui nessuno si occupava più di tanto. Roberto ha dato voce ad una lotta anticamorra ancora debole, lontana dal lungo percorso già affrontato, ad esempio, in Sicilia contro la mafia. Ha usato un’arma micidiale, efficace, sebbene troppo spesso sottovalutata: la parola. La forza di Roberto, infatti, è quella delle sue parole, che mettono paura a questi vigliacchi vermi travestiti da potenti, a questi untori avidi di sangue e potere, di morte e denaro, forti solo quando imbracciano un kalashnikov o una pistola e quando sanno che la vittima non può difendersi ad armi pari. Contro la forza delle parole, i casalesi hanno pensato di usare la vigliaccheria del tritolo, da piazzare in autostrada e da far scoppiare al passaggio di Saviano e della sua scorta. Lo stesso metodo usato dalla mafia per eliminare Falcone, la moglie Francesca e gli agenti di scorta. Un salto di qualità verso una strategia stragista, stavolta mirata a cancellare in un sol colpo le parole, le denunce, la forza di un ragazzo meno che trentenne, capace come pochi di scrivere e svelare  la verità. Una minaccia di morte, una condanna già stabilita, in silenzio, dai boss casalesi, in particolare dal latitante Giuseppe Setola, che, secondo quanto dichiara un pentito (forse Carmine Schiavone, che però ha smentito), ha già previsto di attuare il suo piano di morte entro dicembre, perché “quel libro ha fatto troppo clamore”, perché Saviano deve crepare, insieme alla scorta che lo protegge, perché è diventato il simbolo di chi sa alzare la testa, e per questa ragione deve essere punito, perché bisogna far capire che chi si ribella non ha altro destino se non la morte. Ma Roberto non molla, anche se dalle sue frasi (già quando scrisse la lettera dopo la strage di Castel Volturno) traspare un’enorme solitudine, la rabbia di un uomo che perfino i suoi amici (ma si può ancora chiamarli amici?) reputano “colpevole”, come racconta lo stesso Saviano in un’intervista rilasciata a Giuseppe D’Avanzo per Repubblica. “I miei amici, i miei amici veri, quando li ho finalmente rivisti dopo tante fughe e troppe assenze, che non potevo spiegare, mi hanno detto: ora basta, non ne possiamo più di difendere te e il tuo maledetto libro, non possiamo essere in guerra con il mondo per colpa tua? Colpa, quale colpa? È una colpa aver voluto raccontare la loro vita, la mia vita?”. No, non è una colpa. L’ho già scritto precedentemente (su ilmegafono.org di due settimane fa) che i colpevoli siamo noi, non Saviano, non chi denuncia, ma noi, tutti quelli che ci sentiamo in pace con la nostra coscienza, pensando che la mafia o la camorra o la ‘ndrangheta siano cose lontane da noi, solo perché pensiamo che non ci hanno mai toccato in prima persona, perché noi siamo onesti, non abbiamo a che fare con loro. Falso. La criminalità organizzata ti tocca, in ogni momento, quando respiri e mangi i veleni ospitati dal cibo contaminato dalle discariche abusive e tossiche; quando non riesci a trovare lavoro perché i posti che ti spetterebbero sono occupati da persone che hanno baciato le mani ai boss o a politici che agiscono come tali o per loro conto; quando esci la sera e, posteggiando la macchina, speri che quelle accanto non prendano fuoco coinvolgendo la tua; quando cammini e preghi che in quel momento nessuno spari o che i negozi davanti a cui passi in tarda serata non esplodano all’improvviso; quando imbocchi l’autostrada e pensi che  non esiste il solo pericolo legato alla guida; quando implori giustizia e trovi soltanto isolamento. Il sud sa queste cose, le vive ogni giorno, ma finge che tutto va bene, accetta, in silenzio, un silenzio che nessuno intende rompere, perché in fondo è più comodo e se sei fortunato puoi vivere tranquillo, fino a quando un tumore o una bomba decreteranno il tuo addio. Cosa dobbiamo insegnare ai nostri figli? In quale giustizia dovranno credere? In quale Stato? Forse dovremmo evitare di parlargli, di far vedere loro la realtà. Forse dovremmo lasciarli nell’ingenuità, per “tutelarli”. Niente affatto: per tutelarli davvero dovremo spiegare tutto, dovremo regalargli “Gomorra”, perché hanno diritto di conoscere, di sapere, di indignarsi, di contestare. In Italia, manca questo. Manca uno Stato, come dimostrano le parole del ministro Maroni, il quale ha ridimensionato Saviano dicendo che “è un simbolo, non il simbolo” e che la lotta alla camorra non si fa con le parole, perché a farla sono soprattutto magistrati, poliziotti, imprenditori (quanti?), insomma lo Stato. Peccato, però, che prima di “Gomorra” questo famoso Stato non si sia visto; peccato che fino ad allora i casalesi se la siano spassata, con la copertura e la complicità di uomini dello Stato che oggi siedono accanto a Maroni sui banchi del governo, come il sottosegretario Cosentino. Ma per questo nessuno si indigna. Manca l’indignazione, manca la protesta, manca la conoscenza. Ignoranti, indifferenti, servili, vuoti, vigliacchi: così è la maggior parte degli italiani oggi. Prendiamone coscienza. Roberto Saviano è stato condannato a morte. Roberto Saviano adesso ha deciso di lasciare l’Italia, almeno per un po’. Non è una resa, è un diritto. Il diritto di un ragazzo a vivere una vita normale, lasciare la vita di caserma per qualche tempo, respirare l’aria, uscire, godere della meraviglia di una luce che gli è stata negata per ragioni di sicurezza. Roberto vuole innamorarsi, uscire con gli amici, liberare la sua vera essenza ed il suo carattere dalle preoccupazioni, dallo stress, dal successo. Rivuole una vita che ha dovuto mettere da parte solo per aver fatto il suo dovere: “Voglio una vita, ecco. Voglio una casa. Voglio innamorarmi, bere una birra in pubblico, andare in libreria e scegliermi un libro leggendo la quarta di copertina. Voglio passeggiare, prendere il sole, camminare sotto la pioggia, incontrare senza paura e senza spaventarla mia madre. Voglio avere intorno i miei amici e poter ridere e non dover parlare di me, sempre di me come se fossi un malato terminale e loro fossero alle prese con una visita noiosa eppure inevitabile. Cazzo, ho soltanto ventotto anni! E voglio ancora scrivere, scrivere, scrivere perché è quella la mia passione e la mia resistenza e io, per scrivere, ho bisogno di affondare le mani nella realtà, strofinarmela addosso, sentirne l’odore e il sudore e non vivere, come sterilizzato in una camera iperbarica, dentro una caserma dei carabinieri - oggi qui, domani lontano duecento chilometri - spostato come un pacco senza sapere che cosa è successo o può succedere”. Roberto ha diritto di vivere, noi abbiamo il dovere di mostrargli la nostra vicinanza, la nostra solidarietà, cercando di farlo sentire meno solo. Per questo sarebbe bello se in migliaia scrivessimo al suo sito (http://www.robertosaviano.it/), per ribadire che siamo con lui, che siamo pronti ad aiutarlo in qualunque modo. Magari con una manifestazione nazionale a Casal di Principe, tutti insieme, tutti gli italiani che vogliono ancora tentare di riprendersi questo paese allo sbando. Dobbiamo ripetere quello che si è fatto negli anni ’90 in Sicilia, perché è più utile ribadire il nostro sostegno alle persone che ancora lottano, che sono in vita. Dobbiamo essere in tanti, dobbiamo essere uniti e più forti della paura, perché solo così la forza delle parole può sconfiggere il tritolo. La democrazia, quando si esprime attraverso le sue forme più nobili, sa essere più forte dei mali che la affliggono.  

 

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