Sono settimane che in Italia si guarda a quel che accade in Libia e alla guerra
che stiamo conducendo attraverso un'unica lente: nient'altro è per noi visibile
se non quello che potremmo patire noi, se i fuggitivi arabi e africani
continueranno a imbarcarsi verso le nostre coste. Non si discute che di
Lampedusa assediata, di città italiane più o meno restie all'accoglienza. Per
la verità non si parla di rifugiati ma di invasori, come se la vera guerra fosse
contro di noi.
Il trauma è nostro monopolio, il mondo è un altrove che impaura e minaccia: da
un momento all'altro, il favore di cui gode l'operazione in Libia potrebbe
precipitare. Sembriamo molto lucidi e pratici, ma questo restringersi della
visuale ci rende completamente ciechi: l'altrove mediterraneo resta altrove,
solo la nostra quiete di nazione arroccata e aggredita ci interessa. Già alcuni
parlano di tsunami, ed ecco paesi e persone degradati ad acqua che irrompe.
Non ci interessa quel che fa Gheddafi (vagamente parliamo di massacri, in parte
avvenuti in parte potenziali). Non ci interessano neanche gli insorti, le loro
intenzioni. Il mondo è in mutazione ma noi siamo lì, chiusi in un recinto fatto
di ignoranza volontaria: come se esistesse, oltre alla guerra preventiva, un
non-voler sapere preventivo. Credevamo di aver spostato le nostre frontiere più
in là, lungo le coste libiche, ben felici che a gestire l'immigrazione fosse il
colonnello coi suoi Lager, invece nulla da fare. Il muro libico crolla e i
detriti son tutti a Lampedusa e la maggioranza stessa degenera in detrito: con Bossi che
offre come soluzione lo slogan "föra di ball", con il Consiglio dei
ministri che salta, con Berlusconi che di persona andrà nell'isola campeggiando
- ancora una volta - come re taumaturgo.
Lampedusa è divenuta l'emblema della nostra condizione di vittime, il grido che
lanciamo all'universo. Dice il governo che oggi arriveranno 4 navi per 10.000
posti, ma per tanti giorni non abbiamo visto che l'isolotto sommerso da grumi
informi a malapena identificati con persone. Il fermo immagine sull'isola - il
fotogramma che sospende il tempo creando stasi, ristagno - è l'arma di un
governo che scientemente arresta la pellicola su questo dramma abbacinante.
Lampedusa è agnello sacrificale, ha scritto su Repubblica Eugenio Scalfari.
Tutte le colpe s'addensano nell'icona espiatoria, e non stupisce il vocabolario
sacrificale che l'accompagna: esodo biblico, inferno, apocalisse. Sguainare la
parola apocalisse è profittevole al capo politico, che pare più forte. Diventa
il kathekon del mondo: trattiene i poveri mortali dal disastro. Così Lampedusa
si tramuta in podio politico: Marine Le Pen, leader del Fronte Nazionale, già
ci è andata, il 14 marzo, ben cosciente che l'Italia è oggi laboratorio delle
destre estreme.
Giustamente il cardinale Martini mette in guardia contro l'uso dello
spauracchio apocalittico: non ha detto, Gesù, che "fatti
terrificanti" verranno ma "nemmeno un capello del vostro capo
perirà"? La paura è comprensibile ma va affrontata, secondo Martini, con
quattro virtù: resistenza, calma, serietà, dignità. È proprio quello che manca
in Italia. Che manca, nonostante l'attività della Caritas, anche alla Chiesa:
con gli innumerevoli alloggi che possiede, non pare sia decisa a offrirli per i
fuggiaschi, stipati in condizioni non vivibili, privati ora anche di cibo.
Chiara Saraceno ha spiegato bene il paradosso, domenica su Repubblica: questi
alloggi, trasformati in alberghi, godono di sconti fiscali perché destinati
"esclusivamente allo svolgimento di attività assistenziali,
previdenziali". Perché non sono messi subito a disposizione?
Quando non c'è serietà le bugie dilagano, le immagini s'adeguano. Si adeguano
nel caso della guerra libica, che non essendo chiamata guerra non può nemmeno
esser pensata a fondo, con conoscenza di causa. Si adeguano nel descrivere
l'Unione europea, su cui piovono accuse talvolta giuste ma nella sostanza
menzognere, da parte di governanti che di tutto son capaci tranne di pedagogia
delle crisi. Se non c'è una politica europea sull'emigrazione, è perché gli
Stati vogliono mantenere per sé competenze che non sanno esercitare. È contro
il proprio panico sovrano che dovrebbero inveire, non contro Bruxelles: contro
l'ideologia del fare da sé, del "ghe pensi mi", che angustia l'Italia
da quasi cent'anni. In teoria dovrebbe valere il principio di sussidiarietà
(l'Unione decide sulle questioni di sua competenza che gli Stati non sanno
risolvere), ma si esita ad applicarlo. Quanto all'immigrazione, il trattato di
Lisbona prevede che l'Unione decida all'unanimità tra governi, senza la
codecisione del Parlamento europeo, con l'eccezione di alcune materie in cui il
trattato stesso prevede la procedura legislativa ordinaria: solo in queste
materie (non sono le più importanti) si decide a maggioranza qualificata e
dunque si agisce.
Ma la menzogna decisiva riguarda quel che l'Italia pensa di sé. Alla radice
della cecità, c'è l'illusione di essere una nazione che ancora può scegliere
tra essere multietnica o no. Che non deve nemmeno chiedersi se stia divenendo
xenofoba. In realtà sono 30 anni che siamo un paese d'immigrazione, con punte
massime negli ultimi dieci, e quando Berlusconi nel 2009 disse che "non
saremo un paese multietnico", mentiva per evitare il ruolo di pedagogo
delle crisi. Per negare che la convivenza col diverso si apprende faticosamente
ma la si deve apprendere: attraverso una cultura della legalità, dello Stato,
del rispetto. Il politico-pedagogo non finge patrie omogenee che rimpatriano alla
svelta bestiame umano, ma governa una civiltà multietnica che da tempo non è
più un'opzione ma un fatto.
Per capire il nostro vero stato di salute conviene leggere il rapporto, assai
allarmato, che Human
Rights Watch 1 ha pubblicato il 21 marzo
sull'espandersi del razzismo in Italia. Condotta fra il dicembre 2009 e il
dicembre 2010, l'inchiesta raccoglie una mole di testimonianze e mette in luce
cose che sappiamo, ma dimentichiamo. Raramente il crimine razzista è denunciato
come tale, nonostante la legge Mancino del '93 (articolo 3) lo consideri
un'aggravante nei reati: la disposizione non è però inserita nel Codice penale.
Raramente sono applicate leggi europee e internazionali per noi vincolanti.
Infine, né polizia né magistratura sono formate per affrontare reati simili, e
numerosissimi casi vengono archiviati, specie quando le violenze sono commesse
da forze dell'ordine.
È la retorica che vince sui fatti, scrive ancora il rapporto, e la colpa è dei
politici come dei media. Dei politici, che per primi "stigmatizzano le
persone con stereotipi". Dei media, "a causa della monopolizzazione
dell'editoria radio-televisiva esercitata da Berlusconi". Il rapporto non
risparmia la sinistra, spesso tentata di equiparare immigrati e criminali.
Continuamente i politici chiedono che immigrati o fuggitivi si integrino nella
nostra cultura, ma è ipocrisia. Primo perché ai fuggiaschi non vengono dati gli
strumenti per interiorizzare la nostra civiltà, i suoi diritti e doveri. Secondo
perché gli italiani stessi - mal informati, mal governati - ignorano la civiltà
sbandierata. Basti un esempio. Il migrante privo di documento che è vittima di
un reato può richiedere il rilascio di un permesso temporaneo, e rimanere nel
paese per la durata del processo. L'autorizzazione è concessa per periodi
rinnovabili di tre mesi, e revocata a processo finito se il caso è archiviato.
Ma la regola di solito è ignorata, con effetti gravi: il reato non è denunciato
per paura, la fiducia del migrante nello Stato frana, le mafie diventano
rifugi.
Se questa è la cultura politica imperante non sorprende che la nostra politica
estera sia così debole, anche in Libia. Non dimentichiamo che gli aiuti
pubblici allo sviluppo, in Italia, sono crollati. Ristabiliti dal governo
Prodi, da due anni scendono sempre più. In uno studio per l'Istituto affari
internazionali, Iacopo Viciani fornisce dati probanti: nel bilancio di
previsione per il 2011, la cooperazione allo sviluppo è tra le spese più
decurtate, riducendo al minimo il peso italiano nel mondo. Gli stanziamenti per
la cooperazione raggiungeranno nel 2011 il livello più basso, con una riduzione
del 61% rispetto al minimo del '97. Si dirà che ciascuno taglia, in Europa. È
falso: Londra, Stoccolma e Parigi aumentano gli aiuti malgrado la crisi.
Inutile andare a una guerra quando si conta così poco nella scelta delle sue
già confuse finalità. I governi italiani non sono gli unici ad aver negoziato
con Gheddafi, ma il patto stretto da Berlusconi ha qualcosa di scellerato. È
grazie a esso che dal 2009 sono stati rimpatriati centinaia di africani giunti
in Libia per arrivare in Europa. Senza distinguere tra profughi e migranti, i
fuggitivi sono stati respinti in Libia ben sapendo cosa li aspettava: autentici
campi di concentramento, dove regnavano tortura, stupri, fame.
Forse è il motivo per cui fatichiamo, non solo in Italia, ad analizzare questa
guerra libica così opaca. A vedere le insidie di un movimento di insorti che
non ha esitato, pare, a uccidere prigionieri africani sospettati di lavorare
per Gheddafi. Molti libici fuggiranno anche dai successori del colonnello: dai
ribelli che stiamo aiutando perché abbattano il Rais. Forse siamo semplicemente
alla ricerca di nuovi carcerieri per gli immigrati che respingeremo.
Da settimane in Italia si guarda a quel che accade in Libia e alla situazione a Lampedusa. Ma la visuale è ristretta: il mondo è in mutazione e l'isola è divenuta l'emblema della nostra condizione di vittime