À la guerre économique comme à la guerre économique

di Ascanio Bernardeschi - lacittafutura.it - 07/09/2023
Mentre i media tentano di ignorarlo, il summit dei BRICS di Johannesburg cerca di ridisegnare le relazioni economiche internazionali.

Giulio Tremonti, quello che quando era ministro pose fuori dalla Pubblica Amministrazione la Cassa Depositi e Prestiti, privando così lo Stato di un possibile strumento di intervento nell’economia, ha rilasciato un’intervista che non smentisce questa sua pulsione “liberale”. Alla domanda se riteneva che la Cina e i BRICS potessero scalzare il dominio occidentale, ha risposto negativamente, “e questo per un motivo molto semplice a chi si contrappone all’Occidente e ai suoi alleati, manca un elemento essenziale. La libertà”. Poi, dopo aver illustrato la storia del G7, del G20 e della fine delle politiche keynesiane, prosegue: “non vedo grandi prospettive di sviluppo [dei BRICS, n.d.r], il quale passa dalla scienza e la scienza passa per la libertà. In India di libertà ce n’è in un certo grado, ma non certo in Cina”.

Tremonti è un quotato economista, ma la risposta, al di là delle sempre rispettabili opinioni personali, si presta a un’obiezione che non riguarda le sue idee, ma i fatti duri e crudi. I fatti sono che la Cina, in pochi anni, ha sviluppato la scienza al punto di sopravanzare in molti campi perfino gli USA e ha realizzato uno sviluppo enorme, che ha portato fuori dalla miseria molte centinaia di milioni di uomini e donne. Quindi i casi sono due: o la Cina, avendo conseguito questi risultati è un paese “libero” e la cosa è sfuggita al bravo economista, oppure la “libertà” occidentale con la scienza c’entra quanto il pensiero di Tremonti c’entra con quello di Xi Jinping. C’è in realtà un’altra possibilità ed è la più probabile, considerando che l’ex ministro non è, come diciamo noi in Toscana, un bischero. La possibilità è che tutto questo ragionamento sia fuffa, un diversivo puramente ideologico e propagandistico in favore della vera libertà a cui tiene Tremonti, quella di sfruttare il prossimo

La (dis)informazione nostrana passa anche per questo tipo di intellettuali. Essa ha un mandante, lo stesso mandante dei nostri governi e partiti che al governo si alternano. Essa è divulgata sotto dettatura (termine che – casualmente? – ha la stessa derivazione etimologica di “dittatura”) della ex potenza dominante. 

Negli USA in realtà qualche spazio di informazione meno accomodante lo si trova più facilmente che da noi, ma i sudditi non possono permettersi di dire ciò che osano dire i padroni e quindi cercano di nascondere sotto il tappeto gli enormi problemi del capitalismo occidentale e dipingere a tinte fosche quelli delle economie emergenti e soprattutto di Russia e Cina, ormai incasellate nel campo dei nemici assoluti, contro i quali dovremmo prepararci a una guerra, oltre a quella già in atto in Ucraina.

In un mio precedente articolo su “Cumpanis”, ripreso anche da “L’Antidiplomatico”, ho cercato di smontare queste narrazioni, l’ultima delle quali racconta i pericoli per le economie del mondo intero costituiti dallo scoppio di una bolla nel mercato degli immobili cinese che, secondo me, per la potenza economica di quel paese, per il fatto che il mercato dei derivati in rapporto al PIL in quel paese è dell’ordine di un millesimo di quello negli States e soprattutto per la “dittatura cinese” che non lascia, ahimè, il mercato libero di andare per i suoi cavoli, può avere l’effetto dello starnazzare di un papero nei confronti di un’aquila reale. Non torno sugli argomenti, per i quali rimando a quell’articolo, che contrappone a queste presunte gravi criticità i problemi ben più seri dell’Occidente in senso lato – includendovi quindi anche il Giappone – e mette a fuoco il processo in atto di spodestamento del ruolo del dollaro e del Fondo Monetario Internazionale e di aggregazione attorno ai BRICS e alla loro banca, con la costituzione in corso di un polo alternativo al dollaro.

Personalmente sono molto divertito, oltre che indignato, per come i nostri giornali e TG cerchino accuratamente di mettere in sordina questa notizia preferendo fare per giorni lunghi servizi sul Meeting di di Comunione e Fatturazione di Rimini, sulle vicende personali di divi dello sport e dello spettacolo, su qualche immancabile notizia di cronaca nera, sul presunto sfondamento delle linee di difesa russe da parte dell’esercito ucraino, o riferire di una bandierina ucraina furtivamente issata in una spiaggia della Crimea, dopo averci lasciato un po’ di carne da macello, da parte di un drappello di marines ucraini.

Un argomento dei media embedded che avevo omesso in quell’articolo, per pura dimenticanza, è il crollo del rublo, e vedo di rimediare ora. Circa un anno e mezzo fa la Banca centrale russa, in controtendenza rispetto allo sganciamento delle valute nazionali dall’oro, fissò, sia pure temporaneamente (dal 28 marzo al 30 giugno del 2022), il valore del rublo all’oro: 1 grammo d’oro = 5.000 rubli. Poco prima la Russia aveva deciso che il suo gas dovesse essere pagato in rubli. In questo modo ottenne una robusta rivalutazione della sua moneta, riportandola a valori precedenti le sanzioni impartite sostanzialmente dai G7 e dall’Unione Europea, su dettatura/dittatura USA. Venendo a oggi, con il “crollo” attuale il prezzo dell’oro in rubli aumenta di pochissimo, da 5.000 rubli a 5283, mentre l’economia russa non è in recessione, come sta succedendo in gran parte dell’Europa, a partire dalla “locomotiva” tedesca. Per un paese in guerra da un anno e mezzo con l’Occidente unito non mi pare una situazione catastrofica. Invece in Unione Europea, dove domina la libertà, veleggiamo con un altro record: i fallimenti sono aumentati rispetto all’anno precedente dell’8,4%.

Ma il motivo per cui torno sull’argomento è un altro: ora conosciamo le decisioni adottate dai BRICS in materia di pagamenti internazionali. 

Angelo Ferrari titola un suo pezzo sull’argomento I Brics e la chimera della de-dollarizzazione, spiegando poi, strumentalizzando le parole del rappresentante del Sudafrica, che l’obiettivo perseguito (e raggiunto, aggiungo) non era “sostituire il dollaro”, ma – udite udite! – “la creazione di un sistema che rafforzerà il commercio nelle valute locali”. Se lui si accontenta così, va bene. A me parrebbe che se si intensificano gli scambi commerciali utilizzando valute locali, viene meno il ruolo del dollaro. Insomma non si tratterà di zuppa, ma certamente di pan bagnato. 

Le sanzioni alla Russia e i timori di una spirale di default dei paesi con debiti denominati in dollari USA hanno favorito la svolta verso una maggiore autonomia valutaria. Non è stata adottata una nuova moneta o unità di conto, come pure si sentiva vociferare, anche se su questo obiettivo pare si stia lavorando. Per ora ci si concentra su un modello di pagamenti internazionali svincolato dal dollaro. 

BRICS PAY è una piattaforma di pagamenti digitali non solo fra i paesi appartenenti ai BRICS, ma fra chiunque voglia utilizzarla. Con essa è possibile a imprese e consumatori effettuare e ricevere pagamenti nella loro valuta locale in modo sicuro.

BRICS PAY diviene uno strumento alternativo allo SWIFT, il cui accesso era stato inibito alla Russia dal blocco occidentale, e nei suoi confronti appare tecnologicamente più avanzato, disponibile per il mondo intero e per tutte le soluzioni di pagamento esistenti. Il dollaro non sarà più al centro degli scambi internazionali e di conseguenza è prevedibile che anche il suo uso nelle riserve delle banche centrali, che già va scemando da anni, si ridurrà, ponendo non pochi problemi agli USA.

Lo stesso sostenuto aumento dei tassi di interesse da parte della Federal Reserve si spiega, più che con il tentativo di combattere l’inflazione, con le difficoltà che sta incontrando il dollaro e il debito degli Stati Uniti in conseguenza della smarcamento da quella valuta da parte ormai di più di mezzo mondo. Nazioni che rappresentano oltre l’80% della popolazione del mondo, e oltre il 73% del PIL a parità di potere d’acquisto non utilizzeranno più, almeno in via prevalente, nei loro interscambi il dollaro. Un bel problema per gli USA che potevano comprare cosa volevano sostenendo solo il costo della tipografia di Stato e in realtà nemmeno quello, visto che i movimenti di capitali avvengono in gran parte con un banale click che accredita i dollari su un conto bancario. Un problema che gli States si sono in gran parte cercato sia per la trasmissione nel mondo della loro crisi da bolle speculative, sia soprattutto con l’incauta decisione di sequestrare, come sanzione per la guerra in Ucraina, i fondi della Banca Centrale Russa depositati presso banche occidentali, cosa che ha preoccupato non poco altri possibili detentori di fondi: se la ex maggiore potenza economica mondiale si permette di saccheggiare piratescamente a piacimento la ricchezza prodotta da altri, sarà bene non affidargli più i soldi.

Fatto sta che gli Stati Uniti non sanno più come ripagare il loro immenso debito accumulato negli anni, e declassato dalle agenzie di rating (cioè considerato meno sicuro che pria e quindi meno appetibile) mentre operatori di paesi di quello che una volta veniva chiamato terzo mondo si stanno affrettando a ritirare i loro depositi dalle banche occidentali pericolanti.

È inutile che gli Stati Uniti si lamentino del fatto che la Cina, in buona compagnia, si sta sbarazzando del loro debito. Chi di guerra commerciale ferisce, di guerra commerciale perisce.