In uno scenario post-bellico, Visco cita Keynes

di Alfonso Gianni - Il Manifesto - 31/05/2020
In "Come pagare il costo della guerra" (1940), l’economista inglese annoverava due misure: l’introduzione di un reddito di base e della tassa patrimoniale

Quando i grandi banchieri che, senza offesa alcuna, potremmo definire le vestali del finanzcapitalismo, arrivano a citare Keynes, vuole proprio dire che le cose per il sistema dominante non vanno affatto bene.

Se poi a farlo è addirittura il governatore di una banca centrale, come nel caso di Ignazio Visco, allora significa che l’inquietudine sul futuro è profonda.

Del resto Visco non ha risparmiato ai pochi udenti in carne ed ossa per le note precauzioni antivirus le nude e dure cifre della realtà.

Nelle sue tradizionali Considerazioni finali ha scelto di fare riferimento agli scenari più negativi che tanto il Fmi, quanto i vari centri studi europei, come quelli casalinghi, hanno in queste settimane tracciato.

Così che è apparso poco più che un training autogeno quel “insieme ce la faremo” finale, unito però all’avvertenza di evitare ogni “ottimismo retorico”.

Visco è stato cauto, filosoficamente saggio. Ha affermato che “con il dissiparsi della pandemia potremo ritrovarci in un mondo diverso” rispetto al quale, e a quali conseguenze sociali ed economiche porterà con sé, conviene solo riconoscere di “sapere di non sapere”.

Il termine forse più citato nelle 33 pagine a stampa che compongono le Considerazioni finali è “incertezza”, che Visco ha declinato in ogni modo dall’economia mondiale a quella interna, dalle condizioni della finanza a quelle – soprattutto – del mondo del lavoro, dalle “abitudini di consumo” alle “decisioni di risparmio”, dalle consuetudini quotidiane agli stili di vita.

Come scrisse Hyman Minsky, cinquanta anni fa “La differenza essenziale tra l’economia keynesiana e l’economia sia classica che neoclassica è l’importanza attribuita all’incertezza”.

A differenza del grande economista statunitense, Visco non si spinge fino alla definizione di “economia del disastro” che dà il titolo al saggio minskiano e certamente non estende l’analisi dell’incertezza all’intero sistema capitalistico, ma in qualche modo tenta di fare capire che di una svolta ci sarebbe bisogno. E non di basso profilo.

Se le parole sono caute e lo stile è contenuto, il contesto è drammatico.

Da qui la scelta della citazione keynesiana che conta più da dove è tratta che in se stessa. Poche settimane dopo lo scoppio della Seconda guerra mondiale, Keynes pubblicò una serie di articoli sul Times, per poi raccoglierli in un volumetto nel febbraio del 1940 Come pagare il costo della guerra.

Come al solito Keynes sapeva guardare ben oltre il suo momento presente. E qui egli tratteggia un piano per la ricostruzione postbellica, articolato da un livello massimo a uno minimo, un “piano di carattere generale … al quale tutti devono conformarsi, come un codice della strada”, ove si interroga se “si può fare pagare la guerra ai ricchi” e fornisce varie ricette, fra le quali un reddito minimo di base e l’introduzione di un’imposta patrimoniale, non senza chiedere sacrifici anche ai lavoratori.

Visco di tutto ciò non parla, né sarebbe suo precipuo compito, essendo materia di politica economica, quindi squisitamente tema di governo. Del resto per poterlo fare il Governatore avrebbe dovuto tracciare un’analisi ben più radicale delle arretratezze della nostra economia, ove la mancanza di crescita e di innovazione, come ci ha ricordato su queste pagine Pier Luigi Ciocca, sono antecedenti di qualche decennio alla crisi del 2008.

Il rilancio, o meglio la ricostruzione, non può avvenire senza un cambiamento profondo del modello fin qui perseguito. Né bastano le cose fatte, soprattutto dalla Bce e speriamo dalla Ue, che Visco elenca puntigliosamente; ancor meno il livello ben inferiore alla media europea dell’indebitamento privato nel nostro paese; e neppure l’esistenza di un sistema di ammortizzatori sociali che per quanto allargato ed elasticizzato lascia senza protezione quella larga fetta crescente di precari.

Definire, come fa Visco, queste condizioni come i nostri punti di forza ha il sapore di un’amara ironia involontaria.

E infatti le sue Considerazioni si chiudono con l’invito a non perdere la speranza. Ma Visco non è il Papa e da lui ci si attenderebbe altro.

La sua proposta di un “contratto sociale” non legato ad alcun percorso programmatico di largo respiro è poco più che uno stanco invito morale. Del resto chi lo dovrebbe accogliere non lo degna della minima considerazione.

Fanno testo le dichiarazioni rilasciate dal vicepresidente e dalla direttrice della Confindustria, che battono il solito tasto della produttività e della competitività, nonché di una riforma fiscale, a cui Visco ha fatto cenno, e che avanza però, dopo il precedente dell’Irap, più come una minaccia che una speranza.

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