Viviamo in Paese nel quale il 23,1% della popolazione (dati Istat 2024) si trova in almeno una delle seguenti condizioni: a rischio povertà, in grave deprivazione materiale e sociale oppure a bassa intensità di lavoro. Un Paese nel quale il 10% delle persone (sei milioni) rinuncia alle cure e nel quale la spesa per l’istruzione è tra le più basse in Europa, con investimenti inferiori a quanto spendiamo per pagare gli interessi sul debito pubblico.
Il nostro Paese è contemporaneamente quello nel quale l’1% più ricco della popolazione detiene il 13,6% di tutto il reddito nazionale, con un accentramento della ricchezza che dal 1980 non ha pari in Europa.
Infine, il nostro paese è il quinto al mondo (dati Germanwatch 2025) per rischio climatico, avendo subito negli ultimi 30 anni danni climatici per 60 miliardi di euro e 38.000 decessi.
Di fronte a questi dati, qualsiasi governo di buon senso saprebbe già dove reperire e dove destinare le risorse: forte tassazione dei redditi più alti e investimenti su lavoro, scuola, sanità e transizione ecologica. Ma di governi di buon senso non vi è traccia né in Italia, né in Europa, dove si è deciso che il futuro sarà permeato dalla guerra e dalla militarizzazione, alle quali saranno destinate risorse folli: dal piano ReArm Europe che intende mobilitare nei prossimi quattro anni ulteriori 800 miliardi di euro per le spese per la Difesa e nell’industria degli armamenti, alla decisione presa nel vertice Nato del giugno scorso di destinare il 5% del Pil entro il 2035 ai medesimi settori.
Detto in parole semplici e comprensibili, significa che al settore militare saranno destinati 400 miliardi in più nei prossimi dieci anni.
Se vogliamo ulteriormente entrare nel dettaglio, la decisione Nato prevede che l’1,5% del Pil sia destinato a infrastrutture per la sicurezza e il 3,5% a investimenti militari in senso stretto.
Nel primo caso, in qualche modo si può parlare di spesa non aggiuntiva, poiché basterà dichiarare che grandi opere infrastrutturali (vedi Ponte sullo Stretto o il Tav) siano utili sotto il profilo militare per poterle conteggiare nella percentuale. Ottenendo, dal punto di vista del governo un doppio risultato: dare ulteriore spinta a opere inutili e dannose, bloccando le legittime proteste delle popolazioni dietro il paravento dell’opera militarmente strategica e nel contempo far finta di ottemperare al diktat Nato.
Ma in ogni caso, considerando anche il “solo” 3,5% del Pil, significa destinare 220 miliardi di euro in più alla spesa militare. E significa che ogni manovra finanziaria da qui al 2035 sarà interamente assorbita da questa destinazione, con l’unico problema di dove reperire le risorse.
Su questo tema, qualsiasi gioco di prestigio si appresti ad annunciare il ministro dell’Economia Giorgetti, il gioco delle tre carte è presto fatto, poiché le risorse possono essere reperite in soli tre modi: aumentando il debito pubblico, aumentando le tasse o riducendo le spese.
Se la prima possibilità è decisamente poco percorribile (il nostro debito ha superato i 3000 miliardi) e la seconda è stata già asfaltata dalla presidente del Consiglio Meloni (“non un euro uscirà dalle tasche degli italiani”, come se l’intera ricchezza pubblica non ci appartenesse) il rebus è presto risolto: verranno tagliate le spesa per sanità, istruzione, sociale e verrà accantonata qualsiasi risorsa per la transizione ecologica.
Se questa è la situazione, forse è venuto il tempo di immaginare un vero sciopero (meglio se europeo) che metta in campo tutti i soggetti sociali e del lavoro che saranno direttamente colpiti dai ladri di futuro che governano il nostro Paese e il continente europeo.
Perché non provare a discuterne, lanciando per una volta il cuore oltre l’ostacolo?