Sia il sindacato ad avanzare un piano per la ricostruzione del Paese

di Alfonso Gianni - jobsnews.it - 09/06/2020
Dobbiamo avere la consapevolezza della gravità del momento, in cui sono in gioco i destini della democrazia, del vivere sociale, materiale e civile, dell’ambiente del nostro paese e dell’Europa.

L’ineccepibile titolo di prima pagina a sei colonne del Sole24Ore di giovedì 4 giugno non lascia margini di dubbio sulla situazione che abbiamo di fronte: “Fase 3 al via con 400mila posti in meno”. Che si andasse verso una pesante recessione non vi erano dubbi, ma conoscere i numeri nudi e crudi di fonte Istat se non stupisce fa certamente un certo effetto. L’istituto di statistica rileva che in aprile gli inattivi, ovvero coloro che neppure più cercano un lavoro avendo perso ogni speranza di trovarlo, crescono di 746mila unità, mentre l’occupazione subisce un calo di 400mila unità. Il tasso di disoccupazione scende al 6,3% dall’8% di marzo a causa dello spaventoso aumento degli inattivi che escono dalle statistiche della disoccupazione. Si tratta di un crollo generalizzato, anche se come al solito il peggio è toccato alla componente femminile del mercato del lavoro. Il nostro tasso di occupazione scende quindi dal recente 58,6% all’attuale 57,9% inserendosi nelle ultime posizioni nella classifica europea.

Per la prima volta dal giugno 2017 il numero assoluto degli occupati scende al di sotto della soglia dei 23 milioni di unità. Qualcuno ha cercato di dire che la non ricerca del lavoro è anche determinata dal blocco della mobilità a causa delle misure anti Covid-19. Questa componente ha il suo peso, ma non è certo determinante. In ogni modo la liberalizzazione dei movimenti verificherà questa previsione. Quello che francamente indigna è l’insistenza sulle solite ricette. Il consigliere economico del Ministro dell’economia, Marco Leonardi, afferma perentoriamente che “bisogna eliminare, strutturalmente (!), le rigidità normative sul lavoro a tempo determinato”.

Eppure l’evidenza fattuale dimostra il contrario. La Review of Political Economy pubblica la prima meta-analisi completa su trent’anni di ricerca accademica in questo campo. Il 72% degli studi pubblicati dal 1990 al 2019 su riviste scientifiche internazionali dimostrano che non si sono affatto realizzati i benefici occupazionali che venivano promessi. Si tratta di un risultato che trova conferma per tutte le tecniche di indagine adottate dai ricercatori. Deregolamentando si abbassano i diritti ma non si alza il tasso di occupazione. L’Istat ci informa anche quale è la triste condizione del commercio al dettaglio. Ad aprile 2020 si stima, per le vendite al dettaglio, una diminuzione rispetto a marzo del 10,5% in valore e dell’11,4% in volume. A determinare il forte calo sono le vendite dei beni non alimentari, che diminuiscono del 24,0% in valore e del 24,5% in volume, mentre quelle dei beni alimentari aumentano in valore (+0,6%) e sono in diminuzione in volume (-0,4%). Il che è ovvio visto che gli acquisti di generi alimentari non sono comprimibili oltre un certo livello e nello stesso tempo la differenza del dato fra valore e volume mostra una tendenza all’innalzamento dei prezzi nel settore alimentare.

Le ipotesi più fosche, che sono state avanzate da diversi economisti, sembrano quindi trovare già qualche iniziale conferma. Paiono persino tornare i fantasmi della stagflazione, ovvero della combinazione  di inflazione e  stagnazione. Anche se, per ora, l’inflazione complessiva non desta particolari preoccupazioni, a differenza della previsione di un consistente periodo di stagnazione se non di recessione. Certamente la speranza che ci trovassimo di fronte ad una crisi a “V”, dove toccato il fondo si rimbalza immediatamente verso l’alto è fortemente impallidita. Un trascinamento a “U”, quando non addirittura a “L” su livelli depressi della nostra economia diventa l’ipotesi più probabile. Quella con cui bisogna da subito fare i conti. Anche perché da noi l’attuale crisi si congiunge con quella precedente del 2008 dalla quale non eravamo ancora risaliti. L

Le recentissime decisioni della Bce hanno ulteriormente allargato gli interventi monetari a livello europeo. Una decisione che non solo non ha sorpreso, ma era quasi del tutto data per scontata. Da qui la reazione sostanzialmente piatta, insensibile, delle Borse. In ogni caso la politica monetaria da sola non risolve il problema. Anzi dal punto di vista delle diseguaglianze la può peggiorare poiché, pur con tutti i correttivi messi in atto dalla Bce, come il superamento della Capital Key, se ne avvantaggiano i paesi con maggiori margini di politica fiscale, ovvero quelli meno gravati dal debito pubblico. Germania in testa. Quindi sono i governi che devono agire mettendo in campo robuste politiche antirecessive. Il paragone tra l’attuale crisi e la situazione post-bellica non sta in piedi dal punto di vista delle cause che hanno scatenato il disastro economico, ma può servire per trovare le terapie da applicare. Poiché la crisi colpisce tutti i settori economici vi è bisogno di un piano generale di ricostruzione. Bisogna tornare a declinare un termine che era quasi uscito dal vocabolario economico contemporaneo: programmazione. Qui oggi si misura la distanza fra pubblico e privato, non certo per nostalgie ideologiche. Tutta la storia passata dimostra che senza un intervento diretto dello Stato in economia non è possibile alcuna programmazione. Certo questa non è la condizione sufficiente, ma è quella assolutamente necessaria.

La Confindustria con la sua nuova agguerritissima leadership la risposta l’ha già data. Prima ancora che Conte lanciasse la sua proposta di convocare una sorta di stati generali dell’economia, Carlo Bonomi aveva già riempito le pagine dei giornali con interviste all’insegna dell’esaltazione del ruolo dell’impresa, che sarebbe la sola a fornire lavoro e reddito e non lo Stato, a condizione che i contratti nazionali di lavoro vengano ridotti a un ruolo talmente accessorio da poterne fare a meno, restando il salario, da contrattarsi a livello di impresa, costantemente al di sotto e possibilmente lontano dall’aumento della produttività. Una linea che ha la forza della chiarezza e sulla quale Bonomi ha condotto un attacco frontale al governo stesso. Da Conte ha ricevuto una risposta prevedibile, quella di rispedire l’accusa al mittente, ma che invece da altri è stata persino considerata troppo dura, tanto che Gualtieri si è subito preoccupato di addolcirla. Ma è chiaro che qui non si tratta di toni. E’ in gioco la funzione e la natura stessa del governo, e della politica mentre la Confindustria si fa partito in prima persona.

La risposta della Cgil, nell’intervista di giovedì di Landini al manifesto, si è mossa sul piano della drammaticità delle urgenze. Ha chiesto la proroga del blocco dei licenziamenti, la prosecuzione dei contratti a termine almeno fino al 31 ottobre, l’allungamento del periodo di cassa integrazione e una riforma degli ammortizzatori sociali per farli diventare un diritto per tutti quelli che lavorano. Una puntualizzazione, quest’ultima, che rischia, al di là delle intenzioni del segretario della Cgil, di lasciare in secondo piano la condizione di chi il lavoro non ce l’ha. Non ha rifiutato l’idea della convocazione di stati generali, purché escano proposte concrete. Ma intanto la Cisl già la intende come un ritorno alla concertazione. Landini ha fatto poi un giusto riferimento a un tema caldissimo, quello della riforma fiscale, uno dei punti di attacco della Confindustria non paga della cancellazione una tantum dell’Irap.

La diversità con le condizioni del dopoguerra non poteva essere più evidente. Allora nacque e si sviluppò un’idea della programmazione all’interno delle stesse forze di governo.  Anzi, ad essere precisi, da parte del management delle grandi imprese pubbliche, come l’Iri e l’Eni. Dagli uffici studi di quelle grandi aziende partì l’idea di una programmazione, che superata la fase puramente ingegneristica, diventava sempre più economica, sociale, quindi politica. Fino a coinvolgere direttamente il governo attraverso un insieme di organismi che seppero raccogliere le migliori menti economiche del paese. Si può persino dire che il centrosinistra nacque prima lì che non nei convegni o nelle direzioni dei partiti. E da questi trasse nuovo impulso. Il 1962 fu un anno cruciale di quella storia e non a caso fu anche quello che col senno di poi avremmo chiamato un prodromo dell’autunno caldo di sette anni dopo. La lotta operaia cominciava a diventare protagonista: nel ’62 si registrarono 181 milioni di ore di sciopero, molto più del doppio dell’anno precedente, una cifra superata solo nel 1969. Tutto ciò dimostrava che non è possibile ricostruire un paese senza una visione e una partecipazione generali. Le forze per fare tutto ciò oggi non si trovano nell’imprenditoria privata, mentre i manager pubblici si scambiano di ruolo come allenatori di calcio.  L’accusa alla classe padronale di fornire vecchie proposte appare però del tutto inadeguata, dal momento che la sua modernissima ambizione è come affrontare la fase di deglobalizzazione che il mondo attraversa, con tutto quello che comporta dal punto di vista della riorganizzazione e dell’innovazione del sistema capitalistico. Né queste forze si possono trovare, anche se la responsabilità di una proposta sarebbe in teoria sua, all’interno di un governo nato senza un’anima propria ma solo con l’obiettivo di risparmiare al paese la reazione più nera dei Salvini &c. Lo stato sfrangiato della sinistra di alternativa ci dice che per quanti contributi possano da essa venire non saranno decisivi.

Allora sia il sindacato, la Cgil in primo luogo, ad avanzare una proposta al paese, una nuova programmazione democratica, fondata sulla difesa dei diritti dei lavoratori su cui costruire il bene generale per la stragrande maggioranza del paese. Sia la Cgil a convocare i suoi stati generali ben al di là dei confini del sindacato, guardando anche alle esperienze e alle presenze europee, e a offrirsi come un centro di pensiero e di iniziativa. Troverà intellettualità ed esperienze pronte a dare una mano. Vaste programme? Sì, ma dobbiamo avere la consapevolezza della gravità del momento, in cui sono in gioco i destini della democrazia, del vivere sociale, materiale e civile, dell’ambiente  del nostro paese e dell’Europa.

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