In direzione opposta al Papa
Nei giorni in cui la voce del Pontefice si alza contro la mentalità della guerra, in Europa chi dovrebbe incarnare l’alternativa femminile alla violenza promuove invece il suo contrario. Von der Leyen parla di “sicurezza europea” e “rafforzamento della difesa”, Metsola di “unità e deterrenza”, Meloni di “ruolo atlantico dell’Italia” e “interessi strategici”, ma tutte convergono su un punto: l’Europa deve armarsi, spendere, produrre, competere militarmente. Una scelta che tradisce la differenza come valore e la donna come soggetto di pace.
Il pensiero del neofemminismo
Anna Arendt, già nel secolo scorso, aveva colto l’inganno profondo: “E’ vano cercare un senso nella politica o un significato nella storia quando tutto ciò che non sia comportamento quotidiano o tendenza automatica è stato scartato come irrilevante”. E la guerra, oggi, è diventata proprio questo: una tendenza automatica, una normalità mai messa in discussione, un destino accettato come inevitabile.
Il pensiero del neofemminismo – che abbiamo sempre difeso come elaborazione culturale, sociale e politica – parte invece da un’altra radice: riconoscere la soggettività della donna significa riconoscere la differenza come valore. La pari dignità non nasce dall’omologazione dei sessi, ma dall’identificazione della differenza come ricchezza. Una ricchezza che dà diritto di cittadinanza a tutte le altre differenze: etniche, culturali, generazionali, sociali. Un pensiero che si fa ponte, non trincea.
La donna, per vocazione, non può essere neutrale davanti alla guerra. Per natura storica, atavica, esperienziale, la donna “sa”: conosce la vita e la morte, eros e tanatos, la cura, la fragilità, la responsabilità verso i più deboli. Ha costruito percorsi di tutela verso bambini, anziani, disabili, ha portato l’ecologia al centro dell’agenda pubblica, ha denunciato violazioni dei diritti umani quando il potere non voleva guardare. Ha sempre saputo che la pace non è un concetto astratto, ma un atto quotidiano di protezione dell’altro.
E allora la contraddizione diventa insopportabile quando proprio donne al comando promuovono miliardi per armi, blocchi diplomatici, narrative di scontro, e impediscono trattative che potrebbero salvare i figli di tutte. La guerra non è un campo astratto: è il luogo dove si massacrano figli e madri, dove si spezza la famiglia, dove la cura si trasforma in lutto.
Un’Europa e un’Italia che ignorano gli appelli al disarmo tradiscono non solo il Vangelo, ma anche l’archetipo più profondo del pianeta donna. La vocazione femminile non è guidare gli arsenali, ma spegnere le fiamme della guerra prima che raggiungano i figli. Difenderli, non consegnarli al fronte. Proteggerli, non giustificarne la morte con la propaganda.
Come scriveva Anna Arendt, il senso dell’esistenza si gioca nella quotidianità, non nelle architetture metafisiche del potere. E la quotidianità della guerra è il fallimento della politica. Soprattutto di quella che si spaccia per cristiana e femminista, ma ha smarrito la sua unica possibile verità: il ripudio della guerra, la difesa dei figli, la pace come destino dell’umanità emancipata grazie al pianeta donna.
Laura Tussi



