LA PAX TRUMPIANA: GAZA APPALTATA: TRUMP E BLAIR GOVERNATORI, NETANYAHU CARCERIERE.

di Lavinia Marchetti - Fb - 01/10/2025
Chiamarlo piano di pace è un abuso linguistico. È un manuale di commissariamento coloniale, con la crudeltà supplementare di usare i prigionieri come pedine emotive. Gaza non riceve sovranità, ma una nuova forma di prigionia, come se 70 anni di colonialismo e un genocidio non fossero bastati.

Il 29 settembre 2025 Donald Trump e Benjamin Netanyahu hanno presentato un piano in 20 punti che viene venduto come pace, ma che è in realtà un ultimatum. La formula è brutale: o Hamas accetta, oppure Israele “finisce il lavoro”, con l’appoggio totale degli Stati Uniti. È un diktat costruito non su una trattativa ma su una minaccia, e l’assenza di Hamas dal tavolo ne svela la natura unilaterale.

 Il trucco dei prigionieri

Il cuore del piano non è il cessate il fuoco o la ricostruzione. È la questione dei prigionieri. Israele promette di rilasciare 1.700 detenuti arrestati durante la guerra e soprattutto 250 ergastolani, molti dei quali condannati per omicidi. Questo numero è la vera leva di Hamas, la sua “moneta sacra”. Per anni la dirigenza del movimento ha ripetuto che non avrebbe lasciato indietro i suoi uomini destinati a morire in carcere. Yahya Sinwar stesso, il leader ucciso e celebrato come martire, uscì da una cella israeliana grazie allo scambio Shalit del 2011 e da allora fece del rilascio dei “fratelli” una promessa vincolante.

 Haaretz scrive con chiarezza: “The first clause is the most important priority for the Israeli public … The second is the biggest win Hamas can point to in Trump’s plan, and the main reason that, from Hamas’ perspective, they should say yes to it” (Amir Tibon, Haaretz, 30 settembre 2025).

Accettare quei 250 significherebbe per Hamas presentarsi, pur devastata dalla guerra, come forza che mantiene la parola, che non tradisce i suoi prigionieri. In un contesto in cui Gaza è ridotta in macerie, la liberazione di ergastolani ha un peso simbolico enorme: vale più di mille dichiarazioni politiche. Per Israele, invece, si tratta di una concessione calcolata: offrire la vittoria simbolica a Hamas e poi usarla come trappola, costringendo il movimento a scegliere tra la fedeltà al proprio mito e il rischio di cadere nell’ennesimo inganno.

 Netanyahu lo sa. Ecco perché i suoi canali mediatici stanno spingendo in un’altra direzione: provocare Hamas a rifiutare. Se Hamas dice no, il premier israeliano potrà presentarsi come colui che aveva aperto, ma che è stato tradito. Se dice sì, il piano è strutturato in modo da permettere a Israele di rallentare, sabotare, reinterpretare ogni clausola, dal ritiro “graduale” ai poteri del futuro governo.

 Tony Blair, il male riciclato

Dentro questa cornice Trump inserisce Tony Blair come figura di garanzia internazionale. Ma Blair non è un garante: è un criminale di guerra politico. Il rapporto Chilcot (2016) lo ha inchiodato: informazioni manipolate sulle armi di distruzione di massa, guerra in Iraq lanciata senza basi legittime, gestione post-bellica catastrofica. Chris Nineham, nel volume The People v. Tony Blair, mostra come Blair abbia incarnato la fusione tra potere politico e macchina mediatica, trascinando il Regno Unito nella guerra più impopolare della sua storia recente per fedeltà agli Stati Uniti. Ogni incarico internazionale a Blair equivale a un insulto alle vittime irachene, afghane, palestinesi. Oggi, l’idea che questo uomo torni come co-gestore della Striscia di Gaza dice tutto: chi ha devastato Baghdad viene chiamato a “ricostruire” Gaza.

 Un piano di commissariamento

Il Board of Peace guidato da Trump e Blair è l’essenza del piano: trasformare Gaza in un protettorato gestito dall’esterno, con Israele che mantiene la sicurezza dei confini e decide tempi e modi del ritiro. Gli aiuti e la ricostruzione diventano affare miliardario da spartire tra imprese occidentali e fondi del Golfo, mentre ai palestinesi resta il ruolo di manodopera impoverita in una “Riviera del Medio Oriente” da cartolina.

 Perché non è pace

Un vero processo di pace richiede legittimità, inclusione, garanzie imparziali. Qui abbiamo l’opposto: un piano scritto da chi bombarda, imposto da chi occupa, supervisionato da chi ha già mentito per giustificare guerre. Hamas viene ridotto a spettatore obbligato, mentre l’Autorità Nazionale Palestinese appare solo come sigillo decorativo da riformare a piacimento.

Basta leggere le parole di Netanyahu: “This can be done the easy way or it can be done the hard way, but it will be done” (The Guardian, 29 settembre 2025). Non è il linguaggio di un accordo, è la minaccia di una resa.

 Chiamarlo piano di pace è un abuso linguistico. È un manuale di commissariamento coloniale, con la crudeltà supplementare di usare i prigionieri come pedine emotive. Gaza non riceve sovranità, ma una nuova forma di prigionia, come se 70 anni di colonialismo e un genocidio non fossero bastati.

 ( Fb Lavinia Marchetti)