Non è raro, oggi, ascoltare la voce o leggere il pensiero di tante persone che criticano il mondo attuale e ritengono urgente un cambiamento, una vera rivoluzione. Questo spesso significa muoversi, diventare movimento, protestare, manifestare, contestare, in modi diversi. Il Novecento è stato un secolo tragico ma anche di profondo cambiamento, di forti tensioni ideologiche e di grandi rivoluzioni. Il nuovo millennio, dal canto suo, è nato tragicamente e ha visto cambiare rapidamente molte cose, dal punto di vista politico, tecnologico e umano. Eppure una rivoluzione, nei termini e nei modi che conosciamo dal passato, non appare possibile. Per una serie di ragioni. La prima è che per combattere il sistema di cui facciamo parte, e che è globale e non territoriale, dovremmo combattere contro noi stessi, la nostra comodità, la nostra scelta facile.

Oggi viviamo perfettamente immersi in una società non a misura di individuo, ma fortemente individualista, in tutte le sue espressioni. Dalle forme che il potere assume, ai modelli di consumo, alla maniera di rivendicare un diritto. Nella nostra epoca è in atto la “decollettivizzazione” dell’umano, un meccanismo economico, politico e culturale che mira a toglierci l’essenza dell’esperienza collettiva, quel senso di condivisione che fa sì che la società sia fatta da comunità in reciproco dialogo e non da individui separati che vivono vite a sé stanti. Se è vero che, come diceva Aristotele, l’uomo è un animale sociale, l’era moderna sta svuotando la socialità dell’uomo, trasformato in bestia da soma al servizio di un potere che, ad ogni livello, lo sfrutta e lo dirige, facendolo sentire in qualche modo parte di un tutto, ma poi nei fatti costruendogli intorno un bel recinto, o meglio una cella di isolamento. La relazione con l’altro, con ciò che arricchisce nello scambio, viene plasmata sempre più in una dimensione sostanzialmente di utilitarismo e bisogno, lasciando viva solo la necessità di interfacciarsi con il contesto urbano di riferimento per potersi nutrire e poter vivere.

Per il resto, si sta rinchiusi tutto il giorno dentro tante tipologie di recinti o gabbie, tangibili o virtuali, riducendo sempre di più le forme di incontro, interazione e confronto. Tutto ciò, tutto questo isolamento, spesso scambiato per solitudine, che invece ne è la mera conseguenza, sta generando diffusi sentimenti di frustrazione, rabbia, sospetto e violenta inimicizia, che la crisi economica coltiva e alimenta ulteriormente. Un terreno fertile e funzionale per il potere, per chi è seduto al comando, sia economico sia politico, che ci spinge a consumare e a vivere esperienze sempre più solitarie e di impulso, scoraggiando o comunque rendendo più rare e difficili, anche per via di una gestione del tempo sempre più scientificamente ridotta, le occasioni comunitarie, collettive, quelle che hanno storicamente consentito la nascita degli anticorpi che hanno reso sempre passeggere tutte le forme di potere, di qualsiasi natura e forza.

Un potere che, peraltro, oggi coincide con un controllo sempre più capillare, esasperato da una tecnologia galoppante e incurante dell’elemento umano, delle conseguenze della sostituzione costante delle attività dell’essere umano con le innovazioni della tecnica. L’economia viaggia su una dimensione sempre meno reale, dalla quale l’uomo viene gradualmente sputato fuori, divenendo combustibile da gettare nel fuoco dello sviluppo a tutti i costi, uno sviluppo che fa sempre più rima con profitto e non con progresso o crescita. Un modello economico, quello attuale, che allarga sempre di più il divario tra chi è forte e chi è debole, che produce esclusione e polarizzazione, elemento quest’ultimo ideale e funzionale al potere politico in termini di costruzione del consenso. Chi infatti è ritenuto ultimo, estraneo, chi è escluso da questo modello, per ragioni di reddito o di origine, di genere o di età o di rappresentanza, viene trattato come capro espiatorio.

Non è più qualcuno al quale rivolgersi collettivamente e umanamente in nome di una visione socialista e democratica e della promessa di rovesciare questo modello o costruire un uguale punto di partenza, ma è semplicemente un ostacolo da rimuovere o attorno al quale disegnare ostilità al fine di produrre consenso. Non è uno scenario inedito, questo, ma lo è il fatto che, a differenza del passato, la risposta, la possibile reazione a tale meccanismo ingiusto, è debole, perché priva di quel senso collettivo di cui si parlava poc’anzi. Purtroppo, infatti, il modello al quale risponde il mondo contemporaneo influenza anche chi a quel modello intende opporsi. Togliere spazi di dissenso, o semplicemente di confronto, allungare le nostre ore al servizio del lavoro o dei canali di comunicazione che, con l’illusione di essere luoghi di espressione delle nostre idee, di fatto ci ingabbiano e narcotizzano, svuota la nostra reale partecipazione attiva. Una partecipazione che è nel concreto limitata, ridotta e, soprattutto, sempre più vissuta individualmente.

La collettività della lotta è un’illusione, in ogni ambito, perché alla fine diventa la lotta di uno o due o comunque pochi leader sui quali si accendono freneticamente i riflettori, portando a una personificazione del dissenso che crea con troppa facilità simboli e con altrettanta facilità li trasforma in bersaglio. Basta colpirne uno, basta che uno solo sbagli o sia indotto a sbagliare o magari diventi vittima di una narrazione negativa, per colpire e indebolire tutti coloro i quali cercano di compiere la stessa lotta. Il dissenso, dunque, diventa facile da reprimere, anche senza le manganellate. Sta succedendo proprio questo e accade perché, di fronte a tale modello di potere subdolo e raffinato, rispondiamo sempre in modo parziale e prevedibile. O antiquato. Non è più possibile, quindi, attendersi una qualsiasi forma di rivoluzione nei termini in cui la si è intesa fino a oggi. Non bastano solo le piazze, che pure sarebbero necessarie, perché i corpi, la presenza fisica, sono un grande strumento democratico, ma servirebbe anche e soprattutto il coraggio di abbattere ciò che governa noi stessi. Perché volenti o nolenti, consapevoli o meno, il sistema che contestiamo è lo stesso al quale obbediamo.

Vi obbediamo ogni giorno, anche mentre scendiamo in piazza o critichiamo aspramente il tipo di società che ci circonda. La società nella quale consumiamo come gli altri, usiamo gli stessi canali, usufruendo dei tanti strumenti di consumo rapido, facile, sicuro, individuale. Comodo. Ecco, il punto, è proprio quello: per cambiare il mondo dobbiamo rinunciare al mondo. O quantomeno a questa forma che ci hanno messo sotto i piedi. La rivoluzione oggi significherebbe pertanto cambiare noi stessi e le nostre abitudini, ristabilire le nostre priorità, i nostri spazi e il nostro tempo. Significherebbe lottare con l’integrità di chi sa che il cambiamento che si insegue è scomodo e difficile. Vorrebbe dire ricostruire contatti nuovamente reali e non virtuali, comportarsi da comunità, andare avanti ma rinunciando alla corsa e alle scorciatoie.

Utopia probabilmente, perché se questo modello ha un vantaggio su di noi è quello di averci infilato in un ricatto e averci stimolato una avvilente sindrome di Stoccolma. È il capitalismo, bellezza. Un sistema che anche nella sua fase morente riesce a far credere che il sangue di cui si è macchiato era il frutto di una legittima difesa. La difesa dei privilegi di cui un pezzo di mondo, in qualche modo, può godere. E a certi privilegi, la maggior parte dei presunti rivoluzionari di questo millennio, non riesce proprio a rinunciare. E quando ci riescono, finiscono per essere etichettati come visionari o eroi, esseri speciali, insomma lottatori solitari, anche se circondati da sostenitori o ammiratori. Ma pur sempre eccezioni e quindi bersagli. E i bersagli, anche se riescono a cambiare il mondo nel loro piccolo, rimangono sempre bersagli. Deboli e impossibilitati a fare rivoluzioni.

Massimiliano Perna -ilmegafono.org