La demolizione dell'Università pubblica

di Pancho Pardi - 17/05/2009
Professori universitari, presidi di facoltà, rettori di ateneo, tutti dovremmo provare vergogna. Stiamo assistendo, senza alcun moto significativo di contrasto, alla demolizione dell’università pubblica

Professori universitari, presidi di facoltà, rettori di ateneo, tutti dovremmo provare vergogna. Stiamo assistendo, senza alcun moto significativo di contrasto, alla demolizione dell’università pubblica. La finanziaria di Tremonti ha tagliato come non mai le spese per l’istruzione ma abbiamo al massimo balbettato. Di fronte alla nostra inazione la Gelmini, di cui è ignota la competenza in qualsiasi campo, riesce ora ad apparire con relativa facilità come radicale innovatrice.

Si sapeva bene anche prima della Gelmini che l’università versava in una condizione che sarebbe presto diventata disastrosa. La moltiplicazione delle sedi universitarie e dei corsi di laurea aveva ingigantito le spese, la moltiplicazione dei posti a professore ordinario invece che di ricercatore aveva ristretto il reclutamento di nuove forze: l’invecchiamento della classe insegnante sembra la caricatura dell’invecchiamento della popolazione italiana.

La classe dirigente di centrosinistra ha fatto poco o niente per fronteggiare l’emergenza e più d’una volta l’ha incrementata. Il centrodestra l’ha affrontata alla sua maniera: ha brutalmente chiuso le fonti di finanziamento. Affronto qui per ora solo il lato della didattica. Ormai i corsi universitari sono in buona parte affidati a professori a contratto. Col nuovo regime questo sarà a titolo gratuito. Alcuni degli interessati si consolano con la prospettiva di conservare così il posto in fila per i nuovi concorsi. Ma la didattica è qui per tradizione poco valutata, e la speranza di nuovi concorsi è sempre più infondata.

Il lavoro gratuito è il nuovo orizzonte dell’economia moderna. Finora pareva limitato ad ambiti circoscritti, ma la dilatazione forzosa dell’apprendistato, la diffusione degli stage hanno ampliato a dismisura una nuova regola del mercato del lavoro: se qualcuno ti da un lavoro purchessia devi essergli così grato da lavorare anche gratis. Non c’è a questo nuovo stato di fatto alcuna giustificazione teorica: è il mero prodotto dei rapporti di forza nel mercato del lavoro. Rapporti così svantaggiosi da vanificare il peso contrattuale di chi ha la disgrazia di avere solo la disponibilità al lavoro.

La condizione attuale dei professori a contratto gratuito mette in evidenza tre punti. Il primo: la nuova invenzione si allarga dal lavoro non qualificato al lavoro qualificato. Il secondo: se per il lavoro non qualificato il periodo di gratuità può essere ancora considerato provvisorio (ma rischia di essere sempre meno vero), per il lavoro qualificato nell’istruzione la condizione di gratuità è ora assoluta e definitiva: ontologica. Che cosa si contratta in un contratto a titolo gratuito? Il terzo: il soggetto attivo non è l’imprenditore privato ma l’ente pubblico preposto alla trasmissione della cultura e della scienza. In un mercato dove tutto ha un suo prezzo (almeno così ci dicono) il lavoro di chi trasmette conoscenza non merita stipendio: non vale niente.

Marx aveva fondato la critica dello sfruttamento sulla base della duplice natura della forza-lavoro: il capitalista ne paga il valore di scambio (il suo prezzo sul mercato) ma ne impiega il valore d’uso e si appropria del suo prodotto, il plusvalore. L’elasticità di questo sistema contemplava che il lavoro potesse essere pagato di più o di meno (di solito il meno possibile) ma nessun classico -da Smith e Ricardo a Stuart Mill e Keynes, fino ai monetaristi più accaniti- si sarebbe mai sognato di stabilire che il lavoro, impiegato nel suo valore d’uso, deve essere annichilito nel suo valore di scambio e quindi non essere pagato.

Se invece l’ente pubblico stabilisce come principio la gratuità del lavoro nell’insegnamento ciò significa la rinuncia volontaria alla sua riproduzione. La cosa va presa sul serio. Forse è meglio dirlo in modo ancora più chiaro: il centrodestra vuole fare terra bruciata dell’istruzione pubblica. Ora che ha il vento in poppa vuole approfittare dell’occasione irripetibile: cancellare le generazioni che ritiene pericolose nell’insegnamento, interrompere la loro riproduzione e nel nuovo spazio reso vuoto introdurre una nuova generazione di educatori allevati a brioches e Mediaset.

Il lavoro non pagato una volta generava scioperi. Ma ciò presupponeva saldezza collettiva. I docenti a contratto gratuito non sono e non sanno essere forza collettiva. Sono una moltitudine di individui separati, ognuno ricattato nel chiuso della sua condizione personale, incline a ritenere possibile un’uscita individuale dalla propria difficoltà, indotto a pensare che la rivolta sia il mezzo peggiore per riuscirvi. Sono, in una parola, senza difesa.

Ma i loro maestri non sono così sguarniti. Professori, presidi, rettori hanno stipendi, stanno andando in pensione, e neanche Tremonti potrà sottrargliela. Hanno uno status sociale robusto, alcuni di loro sono autori conosciuti, godono di stima generale. Ma nella massima parte stanno zitti. C’è in questo un lato disumano: come possono assistere immobili e in silenzio a una prassi ministeriale, grigia e implacabile, che spenge le speranze dei loro allievi? Perfino durante la guerra la riproduzione della classe docente veniva assicurata come risorsa irrinunciabile. Come possono tacere di fronte alla cancellazione di chi si è formato nell’esercizio della critica e alla sua sostituzione con schiere di docili consumatori dell’immaginario televisivo?

 

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