Chiudo la porta e urlo

di Paolo Nori - Einaudi - 01/07/2025
Libro consigliato da Andrea Aloi

“Parlo, di Raffaello Baldini, ma parlo anche di me, e della mia vita, e dei miei genitori, e di mia figlia, e della mamma di mia figlia e anche di mia nonna Carmela”. Così, con sincopata punteggiatura fin troppo creativa, il parmense Paolo Nori, scrittore del ’63 rubato alla posa di gasdotti qua e là nel mondo, spreme il succo di “chiudo la porta e urlo” – tutto minuscolo -, gustosissimo romanzo senza canone, tra autobiografia, diario divagante di vita e di bordo innescato da un goloso tuffo in parole e opere di Baldini (1924-2005), galantuomo di Santarcangelo di Romagna, vicino a Rimini, a lungo giornalista culturale per Panorama, poeta negletto e finalmente scoperto, di nervo autentico e mite, d’implacabile sguardo rivelatore sul quotidiano: “Quel che sanno i morti, e non dicono niente, sanno tutto, anche quando sei in casa, da solo, la notte, finestre chiuse, loro sono lì (…) ti leggono dentro, ma sono buoni e fanno finta di non esserci”. Nori: “Santarcangelo a leggere Baldini , è molto più grande di MiIano, di Roma, di Londra, di Los Angeles, di Mosca, di Città del Messico, Santarcangelo non finisce mai”. Comunque a fine libro c’è una sua bibliografia, basata sulle citazioni, e chi desidera si accomodi.

Baldini scriveva in romagnolo (quello del Riminese, non quello di Forlì o Ravenna) e poi faceva seguire una traduzione in fluente, armonioso italiano. A dirla con l’autore, “un poeta romagnolo che non sembra romagnolo che scrive delle poesie che non sembrano poesie”. Preda ideale per Nori, ape che ciuccia il fiore dove trova un tintinnare che svela, lo riporta e lo traduce, come già ha fatto, da appassionato studioso e docente, nelle “biografie” della poetessa Anna Achmátova e di Fëdor Dostoevskij. Spiegando che mentre l’italiano (lingua adorata dall’ Achmátova e da un altro gigante del verso, Osip Mandel’štam, morto in un gulag staliniano recitandosi brani della Divina Commedia) è in sostanza la lingua fiorentina volgare, un dire cui ci si deve “adattare” svestendo il dialetto, il russo invece è lingua dell’intero popolo, da Vladivostok a Volgograd, per colpa di Arina Rodionovna, la balia di Puškin, “una serva della gleba, una schiava” che gli ha insegnato il russo.

La potenza del dialetto talvolta è irraggiungibile

Mica un paradosso, la potenza di un dialetto talvolta è irraggiungibile. Nori chiama a testimone nonna Carmela che “mi diceva: ‘Paolo, a casa nostra c’era una miseria che quando siam diventati poveri abbiamo fatto una festa’”. E quando, “in mezzo a della gente, le veniva da dire qualcosa, lei parlava con un tono di voce più alto (…) E quel tono lì, mi sembra, voleva dire delle cose”. Dire delle cose. Quindi nonna Carmela c’entra con tutto ciò che Nori scrive, compresi Achmatova e Dante, nel libro delibati con cura e affetto e grazia, una madre e un padre letterari. Lui predilige i russi. Di qui la coglionaggine, in alcuni selezionati soggetti che “tengono a capa sulo pe’ spartere e rrecchie” (proverbio campano), di definirlo “filorusso” in senso di sbrodolante per Vladimir, post 24 febbraio 2022. Al che Nori: “se mi dicono che sono filorusso non ho obiezioni, io sono filorusso. Il che non vuol dire (…) che io abbia ammirazione per il governo russo (…). Sarebbe come supporre che uno studente straniero venuto in Italia a studiare sia stato spinto dal fatto che ammirava, non so, Matteo Renzi. O Giorgia Meloni. O Giuseppe Conte”.

Poi sui coglioni, per circoscriverli ontologicamente, l’autore si affida a Baldini: “io ne conosco più d’uno, (…) non lo sanno che sono dei coglioni, e si sposano, hanno i figli (…) però questi figli, non lo so, io, non se n’accorgono? (…) ci sono i buoni e i cattivi anche tra i coglioni, coglione non vuol mica dire, uno è un coglione, ma può andare vestito bene, portare gli occhiali, può essere anche, guarda io quello che ti dico, può anche essere intelligente, e nello stesso tempo coglione”. Giuseppe Bellosi, glottologo e poeta di Maiano Nuovo di Fusignano, provincia di Ravenna (un altro romagnolo, poi ne arrivano altri) ha tentato una scala gerarchica: prima viene lo sborone (il miles gloriosus, il vantone di ascendenza plautina, peraltro Tito Maccio era di Sarsina, oggi in provincia di Forlì-Cesena), in fondo c’è il coglione. E in mezzo? “Ecco, il pataca, dice Bellosi, è un coglione che vuol fare lo sborone senza averne i mezzi”. Meglio coglione che pataca? E deficiente sta per coglione?

La vasta e complessa materia del “virus coglionario”

Secondo Nori la materia è vasta e complessa e lui ne sa. Il virus coglionario l’ha infettato negli anni verdi. Scrive: “Io da grande, dico, volevo essere un drogato. È durata due anni, poi mi sono accorto che non era una carriera adatta a me e ho cambiato strada”. Oggi Nori ambisce a correre una maratona, non fuma più, mette a bilancio un fracco di libri, da “Bassotuba non c’è” a “Vi avverto che vivo per l’ultima volta”, ha una figlia e una moglie-donna della vita, Francesca, detta Togliatti “perché pensava di essere il migliore” (come Palmiro). Iperteso, spesso ingravidato da nuovi progetti, insegna, raduna i Nori della famiglia a pranzo una volta all’anno e non è un coglione per il semplice motivo che dubita di esserlo. Ciò che è il primo gradino del “conosci te stesso”.

E Nori traduce e serve un fine orecchio assoluto, si tratta di far cantare versi in una lingua altra, di rispettarne il contesto. Insegnando traduzione editoriale dal russo allo IULM di Milano, sul tema è ferrato e, come tutti i ferrati veri, è chiaro. Nell'”Idiota” di Dostoevskij, una celeberrima frase dice così: “La bellezza salverà il mondo”, mentre a rispettare la sintassi russa suona “Il mondo, lo salverà la bellezza”. Per Nori “se mi dicono La bellezza salverà il mondo? mi vien da rispondere di no, se mi chiedono Il mondo, lo salverà la bellezza? mi viene da rispondere di sì”. Sfumature di granito. Prendiamo Nino Pedretti, un altro poeta, romagnolo e di Santarcangelo (e sono due, tre con Tonino Guerra, da un posto con poco più di ventimila anime: qualcosa vorrà pur dire) che nella poesia “Orgasmo” dà voce a una vecchia un po’ gelosa di una liberazione sessuale manco sfiorata per cause anagrafiche. “Adès i cièva tótt”, quasi lamenta: ora ci danno dentro tutti, si tromba che un piacere, si guzza alla grande. Invece nel volume pubblicato da Einaudi, “Al vòusi”, le voci, è stato tradotto: adesso tutti fanno sesso. Che c’entra proprio zero, stona con l’immagine di anziana che il poeta sta sbozzando.

“Fare sesso”. Un onesto romagnolo, magari un “birro” (in dialetto è il maschio della maiala) o playboy che dir si voglia, direbbe altrimenti o meglio, da semi-pro della copula starebbe zitto, lasciando le vuote vanterie non allo sborone, che alla fine il suo lo esalta un po’ troppo ma lo fa, bensì al coglione in versione pataca. Nori si diverte, e il lettore con lui, a schiaffeggiare parole che in Romagna ed Emilia non hanno diritto d’asilo, tipo “felicità”, “intellettuale”. Oppure “amore”, che ormai si usa per vezzeggiare il barboncino di marca. Nori: “Ti amo, in dialetto parmigiano, non si dice, si dice Ti voglio bene, e A mor, in dialetto parmigiano, non significa Amore, significa Io muoio”. Il pudore è come la maturità: è tutto. Ve lo immaginate a scrivere “amore” un Pedretti, che racconta asciutto: “Non lo saprà nessuno, che abbiamo vissuto, che abbiamo toccato le strade coi piedi (…). Che abbiamo guardato il mare dai finestrini dei treni, che abbiamo respirato l’aria che si posa sulle sedie dei bar, non lo saprà nessuno. Siamo stati sulla terrazza della vita fintanto che sono arrivati gli altri”. O un Baldini, uno di quei romagnoli-emiliani che passano dalla baldoria al disincanto ma con l’incazzo? E l’idea di andare al sodo, senza pulpito, di capirci qualcosa in ‘sto mondo pur sapendo che si capirà meno del giusto. Lunatici ma seriamente. Forse Giorgio Manganelli non aveva del tutto ragione quando scriveva che “un matto è un capolavoro inutile”. Scriveva Baldini: “Che poi mi succede di rado, e non sente nessuno, nella camera cieca, di sotto, tra i panni sporchi, chiudo la porta e urlo. Dopo sto meglio”. Nori vuole bene a Raffaello, ha messo un suo verso come titolo e nel retro di copertina, si legge a mo’ d’invocazione il diminutivo riservato agli amici: “Lello! Lello! Lello!”.

Le tracce del linguaggio intellettuale tra Romagna ed Emilia

L’autore lascia immaginare tracce che suggeriscono un lignaggio intellettuale d’Emilia e Romagna, comprensivo – pensiamo – di un Edmondo Berselli da Campogalliano (Modena), di un Ermanno Cavazzoni da Reggio Emilia o un Daniele Benati, pure lui reggiano, traduttore esimio di Joyce e Beckett, e nel libro direttamente citato con l’epigrafe al suo romanzo “Silenzio in Emilia”: “Signore, se ci siete, fate che la mia anima, se ce l’ho, vada in paradiso, se c’è”. Parole del nonno di Benati, non meno cruciale della nonna Cristina di Cristiano Cavina da Casola Valsenio (Ravenna), che così, “Nel Paese di Tolintelsàc”, delucida il narrante-autore: “Tutti perdono qualcosa. Tu sei stato molto precoce: non eri ancora nato che avevi già perso il padre”.

Per non dire della nonna Carmela di Nori, stregato dalle sue Beatrici: Togliatti-Francesca, Parma alma mater, il poeta “futurista” russo Velimir Chlebnikov. E disseminatore di lucciole belle, come questa: “Un amico di Bologna, si chiama Jean Talon, mi ha raccontato di quegli antropologi bolognesi che qualche decennio fa avevano invitato un cantastorie senegalese (…) e gli avevano detto di osservare i bolognesi e di scrivere poi una canzone su di loro da cantare ai senegalesi e lui, tra le altre cose, aveva scritto che in Europa, al mattino, succedeva una cosa stranissima, c’era un sacco di gente che andava in giro legata a un cane”.

“chiudo la porta e urlo”, tutto in minuscolo, merita un giro in libreria. Ha corso per lo Strega testa a testa con “L’anniversario” di Andrea Bajani, altrettanto consigliato e recensito su Strisciarossa nell’aprile scorso.

Paolo Nori, “chiudo la porta e urlo”, Einaudi, pagg. 204, euro 19

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