Il buio oltre Bagnoli

di Antonio Grieco - Napolimontor.it - 01/08/2014

Negli anni Ottanta non sono mancati studi che hanno indagato l’universo del mondo del lavoro, a partire dalla storica sconfitta del movimento operaio alla Fiat che aprì un nuovo scenario politico e sociale nel nostro paese. In particolare, due saggi – uno di Gad Lerner “Operai” e l’altro di Marco Revelli “Lavorare in Fiat” – c’illuminarono sia sulla strategia autoritaria del management Fiat che sul dramma esistenziale dei lavoratori. Rare invece sono state le analisi e anche le testimonianze su altre esemplari vicende dell’Italia industriale che, soprattutto nel Mezzogiorno, hanno colpito l’identità di intere comunità. Il libro di Aurelia Del Vecchio (ex impiegata dello stabilimento siderurgico napoletano) Un luogo preciso, esistito per davvero. L’Italsider di Bagnoli (Alessando Polidoro Editore), con prefazione di Francesco Soverina, ha il pregio di colmare questo vuoto con una testimonianza diretta, dolorosa, di tutte le fasi che portarono alla chiusura di una fabbrica che segnò la vita di intere generazioni operaie. A Napoli, con quella chiusura – di cui grave fu la responsabilità del governo italiano del tempo –, non crollò solo la speranza di un avvenire produttivo della città, ma si distrusse una comunità, un legame sociale, perché “il cantiere” – come lo chiamavano Aurelia e i suoi compagni di lotta – prima di essere un sito produttivo, costituiva un presidio democratico che pesava politicamente e culturalmente nell’intero territorio metropolitano.

E non è certo un caso che la sua dismissione – per citare il titolo del romanzo di Ermanno Rea che, però, riguarda solo il dopo –, insieme con quella d’altri siti industriali, ha conciso con il sempre più asfissiante controllo della camorra su tutti i quartieri della città, dal centro alla periferia.

Il racconto di Aurelia parte dal 1984, dall’accordo sottoscritto dal sindacato nazionale e dall’azienda per la ristrutturazione dello stabilimento napoletano, e dal referendum che ne seguì qualche tempo dopo. Da qui inizia una narrazione divisa in due parti – “Tracce di diario” e “Gli interroganti” – che, scritta in tempi diversi, utilizza in modo originale lo strumento epistolare e si avvale, in particolar modo nella seconda parte, di contributi diversi sulle mancate risposte (della politica e del sindacato soprattutto) alla chiusura di un sito che assunse “le caratteristiche di agnello sacrificale della siderurgia nazionale”. Aurelia, nella prima parte, scrive a Lino D’Antonio, suo marito – anche lui impiegato dell’Italsider –, lettere come frammenti di un vissuto comune; tracce di diario per ricordare e riconoscersi nel turbine della lotta. Rileggendo le parole di Aurelia, si ha l’impressione che Lino sia lo specchio che le consente di riaffermare un proprio autonomo spazio, il riflesso che le permette di ricostruire la sua stessa identità smarrita.

Già nelle prime lettere traspare in tutta la sua crudeltà un’esperienza che – potremmo dire con Pasolini – è dentro la Storia intesa come violenza. Ed è appunto questa violenza che ritroviamo – al di là dello stesso accordo, che tagliava drasticamente i livelli produttivi e occupazionali dello stabilimento – nelle modalità in cui si svolse il referendum del 1984, che costituì per Aurelia e Lino “un vulnus mai sanato”, un’offesa alla democrazia, alla civiltà del lavoro, alla dignità di tutti gli attori sociali coinvolti.

L’accordo – che non vide la firma del consiglio di fabbrica napoletano – aprì la strada a lacerazioni profonde, a ricatti e minacce aziendali, a divisioni tra gli stessi compagni di lotta del sindacato e del Pci, di cui Aurelia era militante coraggiosa e tenace. Si è parlato poco di tutto ciò negli anni trascorsi dalla chiusura del centro siderurgico napoletano, ma questa è stata l’altra tragedia sommersa che si è consumata a Bagnoli; una tragedia che nessun saggio potrà mai descrivere senza il rischio di trascurare qualcosa di un dolore individuale e collettivo insieme. Quel referendum dell’84 – che evoca il clima di ricatto in cui si tenne quello della Fiat di Pomigliano nel 2010 – costituì la prova generale di una mutazione strutturale del sindacato; e di quel metodo autoritario, antidemocratico che culminò (non a caso dopo la svolta occhettiana della Bolognina) con l’accordo del ’92 con il governo Amato, firmato quasi clandestinamente dalla Cgil, che costrinse poi Trentin alle dimissioni.

Il segnale era chiaro. Il tempo della partecipazione era scaduto. Bisognava ora solo cancellarlo dalla memoria e dalla coscienza di milioni di lavoratori. L’incomprensione dei vertici nazionali del sindacato di fronte all’amarezza e alla disperazione di tanti suoi militanti, fu assoluta e grave. Addirittura ci fu qualcuno, come il sindacalista della Fiom nazionale Agostini, che definì gli oppositori all’accordo “i Masaniello di Napoli”. Senza capire che – come scrive Soverina nella prefazione – Aurelia insieme a una minoranza accerchiata e vilipesa, si sentì impegnata nell’arduo tentativo di scongiurare forme di mobilità selvaggia, di salvaguardare la fabbrica, di impedirne il ridimensionamento, di consolidare la  democrazia nelle organizzazioni dei lavoratori.

Nel racconto non si risparmiano critiche al Pci; critiche che – senza voler tacere limiti ed errori di quel partito soprattutto dopo la morte di Berlinguer – possono apparire forse poco generose, soprattutto se si pensa allo scenario plumbeo di quegli anni, al vento di destra che soffiava in Italia e in Europa; alla sconfitta del movimento operaio alla Fiat, al decreto di San Valentino e al referendum sulla scala mobile che ne seguì nell’85; soprattutto all’accordo De Mita - Craxi, che puntò alla marginalizzazione dei comunisti e decretò la fine della giunta Valenzi, il sindaco del Pci che si mise alla testa dei caschi gialli per difendere l’avvenire democratico e produttivo della città; ma resta che molti lavoratori di Bagnoli come Aurelia e Lino – soprattutto nell’ultima fase di vita dello stabilimento – vissero quella lotta come una storia di abbandoni anche da parte della sinistra; una storia di disincanto, di disillusione, di solitudine assoluta. Quella stessa solitudine che ritroveremo a Pomigliano, quando una minoranza di irriducibili operai della Fiom iniziò una battaglia per contrastare l’autoritarismo di Marchionne e riaffermare i diritti e la democrazia in fabbrica. “I costi umani” pagati alla ristrutturazione dello stabilimento siderurgico napoletano – che, a differenza di Taranto, divenne uno tra i più moderni e tecnologicamente avanzati d’Europa anche dal punto di vista ambientale – furono elevatissimi, ma vanificati dalle scelte politiche del governo italiano nei confronti della CEE, dagli indirizzi disastrosi delle partecipazioni statali e dell’IRI, che puntarono sulle privatizzazioni, accettarono il declino dell’Italia industriale e abbandonarono il Mezzogiorno al suo destino.

A nulla servirono i sacrifici dei lavoratori dell’Italsider, con anni di cassa integrazione, scioperi, prepensionamenti. Bagnoli chiuse nell’indifferenza e nel silenzio della città. La terra promessa della reindustrializzazione non ci fu; non ci fu la ricerca, non ci fu – naturalmente non solo per Bagnoli – uno sviluppo innovativo di piccole e medie aziende rispettose dell’ambiente, ecologicamente sostenibili; prevalsero invece scelte improvvisate sul piano della programmazione territoriale e un terziario che – per usare un eufemismo – si potrebbe definire dequalificato; così l’area bagnolese è restata per tutti questi anni solo uno spettro; l’ennesima zona senza progetto e senza futuro. Senza storia.

Aurelia Del Vecchio alla fine del suo racconto parla giustamente di “un deserto a cui si aggiunge deserto e disagio sociale”. È proprio così. Napoli da quel momento diventò terra di nessuno. Una città senza identità dove regnano disoccupazione e precarietà, forse lo specchio più vero dell’Italia conservatrice di oggi, uno dei tanti “non luoghi” della devastante globalizzazione neoliberista. E, tuttavia, la città – a questo ci sembra alluda questa preziosa e drammatica testimonianza – può ripartire solo se ripensa se stessa, solo se fa i conti con la propria storia tradita. Perché a essere sconfitta dal blocco politico conservatore che dominava a Napoli e in Italia negli anni Ottanta, non fu solo una straordinaria lotta in difesa di una fabbrica d’avanguardia, ma un’idea nuova del Mezzogiorno, un progetto di metropoli che credeva in una diversa qualità dello sviluppo produttivo e della civiltà urbana. Questo è stato l’insegnamento dei lavoratori di Bagnoli che nessuno ha voluto ascoltare e riconoscere. Ed qui è il cuore della riflessione di Aurelia, senza alcuna nostalgia passatista, che dovrebbe spingerci a una riflessione vera su come la nostra città si è trasformata in questi anni di declino. L’intenso racconto di una protagonista di quella battaglia non è solo una storia raccontata dai vinti, ma molto di più, una memoria attiva di chi crede ancora nella possibilità di rinascere, nell’insegnamento che viene dalla lunga storia sommersa della classe operaia napoletana.

Nella parte finale della sua narrazione, l’autrice si augura che lo spirito e la coscienza collettiva (di classe, diciamo noi) dei lavoratori dell’Italsider vengano rispettati dalla città. Ma più che rispetto, “l’Illuminismo” dei caschi gialli di Bagnoli merita gratitudine, se solo proviamo a immaginare come sarebbe stato oggi quel luogo d’incomparabile bellezza senza la loro tenace lotta per contrastare l’accerchiamento del governo e delle forze della speculazione, senza il loro isolato e misconosciuto tentativo di resistenza per riconsegnare a Napoli la civiltà del lavoro e del diritto.
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