“Dobbiamo fermare la Renzi-Boschi”. Intervista a Nadia Urbinati

di Francesco Postorino - Micromega - 15/09/2016

Parla la presidente di “Libertà e Giustizia”: “La Renzi-Boschi è una cattiva proposta, mal fatta sapendo di esserlo. Risponde a un criterio dirigistico che limita il potere dei cittadini, sacrificando la politica per l’amministrazione". Renzi? "Ha perfezionato la democrazia plebiscitaria di Berlusconi e il Pd ha ormai poco a che vedere con la sinistra". E sul Fertility Day dice: "Un oltraggio alla natura e alla nostra dignità di cittadini".

Nadia Urbinati insegna Scienze politiche alla Columbia University. Ha in attivo molte pubblicazioni, scrive su Repubblica e da quest’anno è Presidente di “Libertà e giustizia”: un’associazione culturale d’ispirazione azionista che muove dure critiche al renzismo e in particolare alla riforma della Costituzione imposta dall’attuale governo.

Iniziamo dalla «chiacchiera», per dirla con il filosofo Martin Heidegger. Che idea si è fatta della giornata dedicata alla fertilità?

Se fossi stata pagana in un paese antico non avrei probabilmente avuto di che obiettare; con l’inesistenza della scienza medica, l’alta mortalità infantile e un pianeta semivuoto di esseri umani, pregare un dio perché facesse ingravidare molte donne e molte volte ciascuna donna sarebbe stato comprensibile. Oggi, con un mondo strapopolato, e con gli umani che per necessità depredano il creato e sono costretti a riprodurre in laboratorio il cibo che mangiano, penso che la giornata della fertilità sia un oltraggio alla natura, e non soltanto ad essa. È un oltraggio anche alla nostra dignità di uomini e donne e di cittadini. Sul primo punto, quello della dignità morale, la ministra Lorenzin dovrebbe spiegarci perché mai gli “italiani” debbano aumentare di numero; forse perché teme che gli immigrati ci sorpassino o perché pensa che occorra aumentare il numero dei giovani per garantire le pensioni future? La socio-economia malthusiana, molto in voga anche tra studiosi e studiose del genere, mi ha sempre turbata parecchio: perché ci si deve preoccupare se donne tedesche figlino meno o poco, o donne italiane, francesi o britanniche non facciano più figli come un tempo? Sul secondo punto, quello della dignità dei cittadini, è vero che tutti i paesi europei adottano politiche che stimolano la riproduzione e per questo cercano di promuovere politiche del lavoro e dell’assistenza che aiutino i genitori a programmare la gravidanza e non penalizzino le madri in fatto di carriera e retribuzione. Conciliare maternità e funzione sociale delle donne è stato ed è uno dei problemi più seri e difficili da affrontare e risolvere, ma anche quello che ci dà indicazione sullo stato di giustizia sociale di un paese. Ora, il nostro paese è tra gli ultimi in Europa per occupazione giovanile e femminile ed è anche quello che fa molto affidamento sulle donne per sostenere famiglia e assistenza dei deboli (anziani e bambini). Non sarebbe più saggio e giusto provvedere a che la maternità non sia penalizzata con l’esclusione dal lavoro, che le donne non abbiano maggiore facilità di essere licenziate se incinta o più difficoltà ad essere assunte se sono in età fertile, invece di spiegare a chi di loro è in età feconda che hanno a disposizione alcuni giorni al mese per copulare con alta possibilità di concepire? Potremmo chiamarlo cattolicesimo fascistoide. Se non fosse per la mai sopita tentazione di associare le donne alla fabbricazione della razza italica mi verrebbe da fare uno sberleffo alla ministra. Ma non c’è nulla di cui ridere quando lo Stato interviene su temi così privati e personali. Uno Stato di diritto, come ci vantiamo di essere, dovrebbe operare sempre in maniera indiretta sulla volontà dei cittadini quando si tratta di scelte private, ovvero con incentivi e servizi, non con prediche o istruzioni su come e quando copulare o concepire. C’è da aggiungere che quella “pubblicità regresso” era anche molto in tono con l’economicismo dei governanti e la loro cultura liberista: invogliava a copulare (per procreare) con toni e argomenti simili con cui un’agenzia turistica invoglia a prenotare una vacanza.

Negli ultimi tempi il cosiddetto burkini pare stia mettendo a dura prova lo spirito di tolleranza della cultura occidentale.

Come osteggio decisamente l’intervento dello Stato in materia di scelte morali, così sono contraria alla sua ingerenza sul modo di vestire delle donne, anche quando il loro abito è dettato da scelte religiose o quando è una questione di tradizione (ricordo un film di Federico Fellini sulla censura in cui si denunciava il fatto che bacchettoni democristiani usavano gli uffici ministeriali per controllare la cultura e l’arte e soprattutto il modo di vestire delle donne). Tanto per essere esplicita: tra il modello assimilazionista francese, nazionalista, invadente e repressivo, e quello americano, poco invadente nelle scelte morali, mi riconosco in quest’ultimo, che ritengo più coerente con la cultura dei diritti. Si potrebbe obiettare che il vestire sia comunque un agire pubblico e abbia un impatto pubblico, e che questo basti a giustificare l’intervento della legge; del resto, non è forse vero che si punisce chi gira nudo per strada (in Italia, fino a pochi anni fa, era possibile cacciare una donna da un ufficio pubblico se vestiva in maniera “sconveniente”) ?; tuttavia, gli interventi censori sono ingiustificabili quando non producono danno agli altri, a meno che non si reputi che il burkini causi danno alla nostra psiche o alla nostra sensibilità di persone secolarizzate. Questo modo di ragionare ci porterebbe verso una china molto pericolosa dato che molte sarebbero le azioni che dovrebbero passare il test delle nostre preferenze (anzi delle preferenze della maggioranza) e non sarebbe difficile andare velocemente verso una società illiberale. A queste ragioni di principio, aggiungo ragioni di prudenza: favorire la radicalizzazione delle posizioni religiose è poco saggio. Vivi e lascia vivere: questo è il mio motto in questioni che pertengono il costume e i gusti.

Come valuta le vignette di Charlie Hebdo, e la satira fin dove può spingersi?

La satira in un paese dove vigono i diritti individuali dovrebbe essere libera come ogni altra espressione di pensiero (ma ricordiamo che né in Francia né in Italia la libertà individuale è completamente libera, in quanto le nostre Costituzioni rinviano comunque alla legge ordinaria, la quale può intervenire limitando la libertà di espressione e di stampa per motivi di sicurezza pubblica; in Italia, fino al 1999, la bestemmia era un reato inserito fra le contravvenzioni “concernenti la polizia dei costumi”; inoltre, in diversi paesi europei è presente il crimine di "insulti religiosi"). La satira è nata, come sappiamo, per criticare il potere e i potenti. Se oggi la usiamo per criticare i musulmani, i quali sono comunque una minoranza nelle nostre società, è probabilmente perché li riteniamo o li percepiamo come potenti e la loro potenza ci fa paura. Come nel caso precedente, risponderei che è la prudenza che dovrebbe orientare le scelte in questo caso. La mia posizione liberale non mi induce (né mi ha indotto quando il caso scoppiò) a dichiarare «io sono Charlie». Non sono Charlie e non avrei mai fatto come Charlie. Tuttavia riconosco che non tutti la pensano come me e ci sono coloro che si dicono Charlie. Ci deve essere posto per me e per loro.

Da Gramsci al Pd. Cosa è andato storto?

Non mi sembra che ci sia un termine di paragone. Sarebbe come comparare un gatto in carne e ossa a un gatto di peluche; si tratta figurativamente dello stesso animale, ma solo uno dei due è un gatto. La ricerca delle complesse ragioni e concause per cui dalla tradizione che si ispirava a Gramsci si è passati a quella che si ispira a Steve Jobs richiederebbe ben altro impegno. Quel che mi sento di dire per rispondere in maniera sintetica alla sua domanda e prendendo spunto da Gramsci, è che la cultura della classe che gestisce la produzione della ricchezza (oggi non diremmo più che «possiede i mezzi di produzione» in quanto il capitalismo delle corporations rende molti, anche lei e me, partecipi in qualche modo alla sua impresa) ha vinto la battaglia culturale rendendo i molti convinti che quella sia una vittoria meritata, frutto di duro lavoro e della «scommessa sul futuro», come ama ripetere Matteo Renzi. Un amministratore delegato merita quel che guadagna come un precario merita il voucher (la logica del «merito», che da qualche anno ci imbottisce le orecchie e che ha imbottito la mente dei giovani e giovanissimi i quali sono tenuti all’oscuro del fatto assai banale che il merito perché sia meritato deve poter contare su una effettiva uguaglianza di condizioni). Se il capitalismo padronale generava immediata reazione perché visibile e fisicamente individuabile e inoltre destava rabbia in quanto non vi era alcun merito nell’essere per caso nato nella famiglia Agnelli o Pirelli, il capitalismo delle società per azioni e degli amministratori delegati ha diluito la fisicità del possesso e legittimato il discorso del merito. Oggi è la ricchezza, il godimento di condizioni privilegiate di vita, che fa la differenza di classe. E i detentori di ricchezza, contrariamente ai padroni di un tempo, non destano invidia ma ammirazione, non odio di classe ma invito all’emulazione: tutti vorremmo essere come Steve Jobs, e soprattutto tutti potrebbero essere come lui (mentre sarebbe stato assai difficile poter pensare di diventare come Agnelli).

Il Pd a guida Renzi rispecchia al meglio questo mutamento di prospettiva e di cultura morale egemonica. É il partito che meglio rappresenta il messaggio del «fare fortuna», un messaggio che ha poco a che vedere con la sinistra. Il Pd è il partito del successo individuale, del «rimboccati le maniche e vedrai che creerai il tuo futuro». Basta recarsi a una delle sue feste per vedere questo nuovo messaggio in azione: lo slogan che circola è «Il futuro ci unisce». Uno slogan del tutto retorico; una volta dismesso il futuro determinato da una filosofia della storia, una volta che il futuro è quello che è, ovvero sconosciuto a tutti noi, come può unirci? A meno che il futuro non sia la morte (che certamente unisce tutti), esso ci divide in quanto ciascuno segue il proprio e non c’è nessuna certezza che il mio e il tuo collimino. Molto probabile anzi che confliggano. Non voglio credere che il Pd voglia promettere incertezza. Quindi penso che adottando quello slogan esso rappresenti al meglio se stesso come partito che si incarica a convincere le giovani generazioni che devono scommettere sul futuro. Nessuna visione politica e nessuna cultura politica, salvo, appunto, l’indicazione a seguire al meglio le regole del mercato e quindi che ciascuno faccia del proprio meglio per acchiappare il futuro.

Riconosce delle importanti similitudini tra il ventennio berlusconiano e la nuova stagione del renzismo?

Giuliano Ferrara, berlusconiano prima e renziano poi, lo ha teorizzato nel suo libro Royal Baby. E se lo dice lui... La videocrazia ha avuto effetti nella formazione della mentalità diffusa e popolare, e in questo Renzi è come gli italiani cresciuti alla televisione commerciale. Infine: tra i due capi di simile vi è la centralità – teorizzata e praticata da entrambi − della persona del leader rispetto sia al loro partito che ai rispettivi governi. La democrazia plebiscitaria è stata incubata per anni e, con la fine dei partiti organizzati (e anche dei partiti conservatori nella loro organizzazione), la dimensione dell’opinione pubblica è diventata una vera e propria prateria per la conquista dell’audience. Renzi ha perfezionato la pratica di Berlusconi, ancora troppo ingessata al mezzo televisivo; egli usa Internet e cerca il contatto diretto e personale − a “tu per tu” − con il potenziale elettore. Nel suo immaginario non ci sono cittadini ma potenziali elettori, non c’è il popolo ma il pubblico.

Lo studioso marxista Jean-Claude Michéa sostiene che la sinistra ha abbandonato gli operai e il conflitto di classe per inseguire le offerte vincenti del modello capitalista. Quali devono essere le battaglie politiche e culturali del liberal contemporaneo?

In parte ho delucidato questa trasformazione in una precedente risposta. Le battaglie sui diritti sono senza dubbio al centro della cultura politica liberal, ma dobbiamo essere consapevoli che i diritti civili dissociano, atomizzano, individualizzano, non creano popolo e non creano movimenti politici. Creano “issue movements”, movimenti che servono a sollevare un problema e stimolarne la risoluzione. Sarebbe quindi desiderabile cha la lotta per i diritti acquisti un senso politico forte, ovvero di “riconquista” del potere dei cittadini. Sarebbe desiderabile che la lotta per i diritti si traduca in lotta contro la loro decurtazione di fatto e la loro formalizzazione. Si vota al referendum per l’acqua pubblica e si scopre che il diritto di decidere è solo formale: il referendum non ha effetto, e il voto è futile. Penso dunque che alla lotta per i diritti civili occorra affiancare la lotta per i diritti politici: per riconquistarli, appunto. Senza diritti politici solidi nemmeno i diritti civili sono sicuri. Il diritto di voto è reso futile da una meccanica della rappresentanza che è fatta di partiti che occupano le istituzioni e non hanno alcuna intenzione di sottomettersi al verdetto o alla scelta dei cittadini. É questo che va riconquistato: il potere politico. La democrazia deve riconquistare se stessa. Atterrare i “partiti cartello” e dar vita a nuovi partiti o modificare gli esistenti, con regole, istituzioni e forme partecipative che restituiscano il diritto di voto ai sovrani, cioè ai cittadini. Dobbiamo essere capaci di fare questo.

Fra un po’ gli italiani dovranno confermare o respingere la riforma costituzionale. “Libertà e giustizia” come intende muoversi in vista del prossimo appuntamento referendario?

In coerenza con quel che ho detto sopra, penso sia fondamentale che questa revisione della Costituzione non passi. Ci sono varie forme di No e varie ragioni per dire No. La nostra Costituzione non è immodificabile e necessita di cambiamenti, credo di parlare per “Libertà e Giustizia” che condivide il discorso avviato anni fa da Gustavo Zagrebelsky. Ma la revisione proposta dalla Renzi-Boschi risponde a un criterio dirigistico che limita il potere dei cittadini e mette le istituzioni rappresentative su un gradino inferiore rispetto al potere di un organo delegato come il Governo. La logica di questa revisione è quella di adattare il governo della cosa pubblica alla logica di un consiglio di amministrazione; di sacrificare dunque la politica per l’amministrazione, la deliberazione per la decisione. In aggiunta, è un testo mal fatto e in alcune parti (come l’art. 70) superficiale e illeggibile; nella forma, simile a un regolamento aziendale che ha bisogno di esperti per la comprensione; uno stile che non appartiene a un testo costituzionale il quale dovrebbe andare − ci dicono i padri fondatori − quasi a memoria e diventare linguaggio ordinario. Sfido chiunque a mandare a memoria l’art. 70 e sfido gli estensori della revisione a riassumerlo con le loro parole. É così mal fatto che perfino i sostenitori del Sì dicono apertamente che non è un buon testo; motivano il Sì, dicendo: «meglio questo che nulla!». Si tratta di un argomento illogico. Se non avessimo un tetto sulla testa anche un tetto di paglia sarebbe utile per ripararci; ma abbiamo un tetto consistente e solido e non si capisce perché dovremmo preferire ad esso un ricovero di paglia. Il meno peggio ha senso quando non vi è nulla o quando quel che c’è è guasto e pericoloso o disfunzionale. Ma questo non è il nostro caso.

La ministra Boschi invita a votare Sì anche per una maggiore garanzia contro le nuove forme di terrorismo.

Un assurdo che ha pochi eguali! Questa Repubblica democratica e parlamentare ha egregiamente difeso il nostro paese dal terrorismo. Dire che senza un premier che sta sopra le istituzioni rappresentative e si avvale di una maggioranza granitica non ci sia sicurezza ed efficienza è un argomento retorico per gli allocchi, tinto da una profondo scetticismo verso le istituzioni democratiche e dal desiderio di avere un leader solitario e della provvidenza (un topos della categoria della “seconda repubblica” che si è manifestato fin dal suo timido apparire alla fine degli anni ’50). Infine, i sostenitori del Sì usano l’argomento economico, forse il più volgare degli argomenti che sono riusciti a sfoderare: dicono che la Costituzione esistente grava sulle casse dello Stato mentre la nuova ci farebbe risparmiare; eppure, nessuno ci garantisce che i pochi soldi risparmiati (in teoria) con il nuovo Senato non verranno impiegati per alimentare i bisogni dei nuovi senatori (accumulatori di incarichi e mentalmente predisposti ad accrescere le loro richieste). L’argomento del risparmio nella gestione delle istituzioni democratiche è antidemocratico nello spirito in primo luogo perché presume che gli incarichi elettivi siano inutili e improduttivi, e inoltre perché valuta la legittimità democratica con un criterio quantitativo ed economico. Per tutte queste ragioni, a mio avviso, si deve votare No per un Sì ragionevole e più qualificato. Si deve fermare la Renzi-Boschi. É una cattiva proposta, mal fatta sapendo di esserlo.

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