VIDEO e TESTO: Democrazia sotto attacco

di Vincenzo Tradardi - 15/03/2015

 

 

 

Discorso di DOMENICO GALLO, Giudice della Corte di Cassazione

Comitato Salviamo la Costituzione

Aula dei Filosofi, Università di Parma, 11 marzo 2015

 

(...) Siamo a un momento di svolta della nostra storia. Sappiamo tutti che la Costituzione è il patto sul quale si fonda l’unità del popolo italiano come comunità politica organizzata in Stato. Mettere mano alla costituzione è un’operazione particolarmente impegnativa dal punto di vista politico, significa lavorare alle fondamenta del patto che ci tiene uniti. Però viene presentata come un obiettivo che fa parte del percorso del “governo che va avanti come un treno”. Ma si può cambiare così il patto? Il popolo non dovrebbe essere profondamente coinvolto in questo processo?

Nel 1946 l’Assemblea costituente è stata eletta col metodo proporzionale. Tutti gli elementi della società si sono confrontati. Non è stato De Gasperi dal governo a dire “Bisogna fare così, a passo di carica, altrimenti io vi mando tutti a casa”. Ci vuole una relazione di dialogo con la società civile. Noi una cosa così l’abbiamo già conosciuta, sono già 20 anni che cercano di cambiare l’ordinamento della democrazia costituzionale. Abbiamo già conosciuto la proposta di un cambiamento radicale, votata in Parlamento nel 2005; ma grazie alla lungimiranza della Corte Costituzionale, il popolo ha potuto intervenire attraverso il referendum  [costituzionale del 25 e 26 giugno 2006] per cancellarla. Quella legge introduceva il “premierato assoluto”, ma noi in realtà lo abbiamo già avuto, il premierato assoluto, che non esiste in nessun paese della democrazia occidentale, anche dove c’è il presidenzialismo: p. es. in America, dove il presidente può scatenare la terza guerra mondiale, ma non può sciogliere il parlamento e non può costringerlo a votare una legge che non vuole votare. Incontra dei limiti interni.

Negli anni Venti, i costituzionalisti per definire quello che stava accadendo dissero: “Che regime è questo?”. Risposta: “E’ un premierato assoluto”. E adesso stiamo puntando di nuovo verso un sistema che concentra sia il potere esecutivo sia il potere legislativo nelle mani del “decisore politico”, in una fase storica nella quale il partito non è più un organismo nel quale degli uomini e delle donne perseguono un progetto nel quale si riconoscono, ma è diventato una struttura di potere oligarchica che assomiglia a un’impresa con un padrone che comanda e gli altri che ubbidiscono. Cè una concentrazione di potere nelle mani di un capo politico. Con questa nuova riforma viene perseguito lo stesso obiettivo in un modo diverso: da un lato  modificando i poteri del Parlamento, dall’altro snaturando il sistema elettorale. Purtroppo siamo un popolo che non ama le sue istituzioni e che non ha memoria storica. Altrimenti, quando ci hanno presentato questa cosiddetta riforma dell’Italicum avremmo dovuto alzarci in piedi tutti quanti e gridare: “Ma noi l’abbiamo già avuta, questa riforma!”. Basta guardare al 1923: la riforma che porta la firma di Giacomo Acerbo, allora il numero 2 del regime. Quali sono stati gli effetti? Dobbiamo riscoprire il dibattito parlamentare fra il 1922 e il 1924. Ci fu un acceso dibattito sull’approvazione di questa legge. Gli esponenti della cultura liberale e democratica si opposero drasticamente alla legge, e dissero: “Attenzione, questa legge cambia la Costituzione!”. Cambiava lo Statuto Albertino, che si fondava sul regime rappresentativo secondo il quale il Governo doveva presentarsi al Parlamento e chiedere la fiducia. Infatti Mussolini, quando per la prima volta si presentò in Parlamento il 30 ottobre 1922, come presidente del consiglio dei ministri dovette presentarsi alla camera dei deputati dove fece quel famoso discorso: «Potevo fare di questa Aula sorda e grigia un bivacco di manipoli: potevo sprangare il Parlamento e costituire un Governo esclusivamente di fascisti. Potevo: ma non ho, almeno in questo primo tempo, voluto». C’era un vincolo  istituzionale, perché la costituzione dell’epoca lo imponeva. Fu costretto obtorto collo a chiedere l’approvazione del Parlamento, “ma questa è l’ultima volta che lo faccio”. Recentemente un presidente del Consiglio che aveva la stessa età di  Mussolini si è presentato al Senato e ha detto che si augurava che quella fosse l’ultima volta che chiedeva la fiducia al Senato. Mussolini aveva un grosso handicap, solo 35 deputati del partito nazionale fascista, ma il Parlamento aveva 538 membri. Per avere la maggioranza dovette fare un governo di coalizione, c’erano partiti anche abbastanza numerosi in Parlamento che non rientravano nelle categorie politiche che quel governo voleva imporre. Il Partito Popolare fece addirittura un congresso a Torino nel maggio del 1923, dove Sturzo disse che col partito fascista l’alleanza poteva essere solo provvisoria perché il fascismo era un regime ateo. Come poteva il nuovo presidente del consiglio realizzare il suo progetto di trasformare l’Italia? Quale fu la chiave? Attraverso la legge elettorale Acerbo, come fece notare nel dibattito parlamentare Giovanni Amendola, era il capo del Governo che nominava la sua maggioranza: quindi controllava insieme il potere legislativo e l’esecutivo. La legge Acerbo modificava la legge elettorale proporzionale vigente attribuendo un fortissimo potere di maggioranza a un’unica lista. Un unico partito avrebbe avuto il diritto e il dovere di governare. Casualmente, quel partito era il partito nazionale fascista. Ed è quello che accadde. Ora, la minoranza del PD sta facendo una battaglia contro l’Italicum concentrandosi sui dettagli, cioè sui capolista bloccati, ma il punto è che attribuire un premio di maggioranza a un’unica lista vuol dire che il governo si nomina il suo parlamento, il capo del partito che ottiene il premio di maggioranza diventa padrone dell’assemblea legislativa. Questa finzione di uno pseudo-Senato, qual è lo scopo, quello di semplificare, infatti Renzi lo ha detto in un tweet: “un paese più semplice”, cioè chi comanda potrà comandare più facilmente.

[già la prima versione del ddl] diceva che “non si può transigere sul fatto che il Senato non deve essere elettivo”. E perché non deve essere elettivo? Perché il Senato se viene eletto dal popolo poi vuole avere voce in capitolo rispetto alle scelte del governo. Modifichiamo completamente l’ordinamento democratico con un’enorme concentrazione di potere. Chi ci perde e chi ci guadagna? Ci perdono i diritti dei cittadini. Nel momento in cui viene schiacciato il pluralismo, nel momento in cui viviamo una grave crisi economica in cui i nostri diritti fondamentali traballano ed è stata eliminata la stabilità reale dei posti di lavoro, bisognerebbe che i cittadini trovassero una rappresentanza reale nel parlamento, ci serve pluralismo, ma questo non ci sarà più. Tutto il potere sarà concentrato nelle mani di un gruppo politico. Come scrive oggi Massimo Villone sul “Manifesto”,  le scelte istuzionali non sono indifferenti,  istituzioni semplificate e poco rappresentative, assemblee elettive con la mordacchia (la tagliola messa in Costituzione), governi che funzioneranno come giunte comunali (Renzi lo ha detto recentemente in un’ intervista all’”Espresso”), partiti che producono follie  conservatrici, disattenti verso i diritti e le disuguaglianze, subalterni ai poteri forti, sono delle perversità. Ora questo diventa patto costituzionale. Qui c’è un problema che attiene a un valore fondamentale della democrazia: la libertà. L’abbiamo persa con la legge Acerbo e rischiamo di perderla con la riforma che è in cantiere in questo momento. Se il soggetto politico fosse virtuoso... (...).  Dobbiamo vedere come le scelte funzionano nel tempo. Nel nostro paese ci sono forze politiche che hanno una cultura profondamente opposta ai valori pubblici repubblicani. La repubblica dovrebbe essere fondata sul lavoro, ma si vorrebbe fondarla sul capitale (...), forze politiche che contestano la natura antifascista delle istituzioni. (...) si perde ogni forma di garanzia, si influirà anche sul Presidente della Repubblica che sceglie i giudici della Corte costituzionale. Nella storia recente, nella passata legislatura, se non ci fosse stato il bicameralismo sarebbero stati approvati progetti folli, p. es. l’espulsione dei fanciulli i cui genitori non hanno il permesso di soggiorno in regola, o il cosiddetto processo breve che segnava la resa dello Stato alla mafia, oppure la cosiddetta legge bavaglio che impediva alla polizia di fare indagini che contrastassero  la criminalità; non sono diventati legge perché il bicameralismo era una garanzia, e in questo modo l’opinione pubblica ne è stata informata.  L’ordine dei medici contestò una norma che escludeva gli impiegati non regolari dagli ospedali, dichiarandola pericolosissima per la salute dei cittadini che non fa distinzione di passaporti; per i bambini figli di stranieri si sono mobilitati gli insegnanti, le norme furono cambiate, queste leggi razziali, diciamo, non passarono, l’altro ramo del parlamento le bloccò appellandosi alla Costituzione. Ma non crediate che in futuro la  Corte costituzionale possa modificare certe norme, se l’esecutivo potrà  influire sulla sua composizione. Toglieteci tutto, ma non toglieteci la democrazia.

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