GLI elettori non esistono in natura. Sono il
prodotto delle leggi e dei sistemi elettorali. Neanche le parole degli
elettori, i loro voti, sono un dato naturale. Dipendono dagli artifici
in cui sono inseriti e conteggiati per produrre un risultato. Il voto
può essere rispettato, maneggiato, manipolato, reso vano e, perfino,
orientato verso esiti desiderati da coloro che fanno e disfanno le leggi
elettorali: leggi “performative” che non regolano ma creano il loro
oggetto. Non si sta parlando di cose come brogli o corruzione. Si sta
parlando degli effetti di ogni legge il cui compito sia trasformare i
voti in seggi. In quella trasformazione stanno tutte le possibilità
appena dette.
Si comprende così il significato
dell’affermazione iniziale: gli elettori sono l’effetto delle leggi
elettorali. Queste, per così dire, “fanno l’elettore”, lo rispettano o
lo usano; sono neutrali o sono faziose; sono sincere o sono mentitorie.
Trasformano l’elettore da una realtà virtuale in una realtà concreta, ed
è forse questa la ragione sottintesa che ha indotto la Corte
costituzionale ad ammettere il ricorso contro le ultime leggi
elettorali, indipendentemente dalla loro applicazione: producono un
effetto concreto immediato, quando entrano in vigore.
Che cosa sono le leggi elettorali abusive? Si
può trasformare la domanda in quest’altra: di chi sono le leggi
elettorali? La risposta, in teoria, è ovvia: le leggi elettorali, tra
tutte le leggi, sono quelle che più d’ogni altra appartengono ai
cittadini; e meno di tutte le altre, ai governanti.
LE LEGGI elettorali abusive sono quelle fatte dai governanti come se interessassero, come se appartenessero, a loro. Guardiamo ora ciò che è accaduto e che accade. Le si fanno (o si cerca di farle) col fiato corto, guardando all’interesse immediato dei partiti. Così, esse diventano strumenti di lotta politica orientata dai sondaggi. C’è da stupirsi, allora, se all’accanimento nelle sedi del potere dove le si elaborano corrisponda l’indifferenza indispettita di grande parte di cittadini elettori che assistono alle giravolte, alle contraddizioni, alle furbizie e alle infinite improvvisate complicazioni che si svolgono sopra la loro testa? Si comprende poco o niente della riforma, ma si capisce benissimo d’essere trattati come merce, come possibile “bottino”, e non come soggetti della democrazia. La giustizia elettorale, qualunque cosa significhi, è sostituita dagli interessi.
I partiti giocano molto della loro credibilità
in questa partita. Esiste un documento della Commissione di Venezia
(autorevole consesso che formula giudizi sullo stato della democrazia
nei Paesi europei), adottato dal Consiglio d’Europa nel 2003, intitolato
“codice delle buone pratiche in materia elettorale”. È un richiamo alla
responsabilità e lealtà nei confronti degli elettori. Vi si legge che
«la stabilità del diritto è un elemento importante per la credibilità di
un processo elettorale, ed è essa stessa essenziale al consolidamento
della democrazia. Infatti, se le norme cambiano spesso, l’elettore può
essere disorientato e non capirle, specialmente se presentano un
carattere complesso. A tal punto che potrebbe, a torto o a ragione,
pensare che il diritto elettorale sia uno strumento che coloro che
esercitano il potere manovrano a proprio favore, e che il voto
dell’elettore non è di conseguenza l’elemento che decide il risultato
dello scrutinio. Gli elementi fondamentali del diritto elettorale, e in
particolare del sistema elettorale propriamente detto, non devono poter
essere modificati nell’anno che precede l’elezione, o dovrebbero essere
legittimati a livello costituzionale o ad un livello superiore a quello
della legge ordinaria ».
Queste proposizioni, di per sé, non hanno forza
di legge. Tuttavia, esse integrano l’articolo 3 del Protocollo n. 1
della Convenzione europea dei diritti dell’uomo: diritto a elezioni
libere ed eque. Questo sì ha forza di legge. Sulla sua base la Corte di
Strasburgo ha giudicato una legge della Bulgaria contraria al principio
di neutralità della legge elettorale ( Ekoglasnost contro Bulgaria, n.
30386/05). Si trattava d’una legge adottata in prossimità delle elezioni
che penalizzava un partito politico a favore degli altri. Attenzione a
non incorrere, anche noi, nella medesima censura.
In Italia, l’abitudine di cambiare le regole
del gioco a pochi mesi dalle elezioni è prassi che pare normale. Così è
accaduto nel 1923-4 con la “legge Acerbo”; nel 1953 con la
“legge-truffa”; nel 1993-4 con la “legge Mattarella”; nel 2005-6 con la
“legge Calderoli”. La stessa cosa potrebbe avvenire oggi con una legge
modificativa del cosiddetto Italicum a seguito della recente sentenza
della Corte costituzionale. Il sospetto che questa modifica sia
inficiata da ragioni di convenienza politica, in queste circostanze, è
più che un sospetto.
Si dice: siamo tuttavia in uno stato di
necessità; abbiamo due leggi elettorali diverse per la Camera e il
Senato; se non le si rende omogenee ci potrebbero essere maggioranze
diverse; la “ingovernabilità” incombe su di noi. Dunque, occorre una
nuova legge elettorale. Fino a che non la si sarà fatta non si vota
(magari anche dopo il 2018?). Questa situazione non è caduta dal cielo. È
il risultato di decisioni assurde, volute da insipienti e arroganti.
Erano sicuri dell’esito del referendum che avrebbe eliminato l’elezione
diretta del nuovo Senato. L’-I-talicum che vale solo per la Camera è
stato approvato “nella (fiduciosa) attesa” della riforma costituzionale.
Accanto alle leggi comuni, retroattive, transitorie, interpretative,
ecc., abbiamo inventato le “leggi nell’attesa…”). Ma gli indovini
possono fallire, tanto più facilmente quanto più si affidano a
previsioni e presunzioni che riguardano altri da loro, nel nostro caso
gli elettori del 4 dicembre. Ora devono uscire dall’impasse dove essi
stessi si sono cacciati, coinvolgendo la Corte costituzionale (su cui un
discorso a parte dovrà essere fatto) e colpevolizzando gli elettori che
hanno mandata delusa la loro “attesa”.
Indipendentemente da astratte desiderabilità,
c’è un solo modo per non incorrere nell’accusa d’una legge
dell’ultim’ora a vantaggio degli uni e a danno degli altri, con
possibili conseguenze di fronte alla Corte di Strasburgo: una legge
proporzionale, con sbarramenti al basso ma senza premi all’alto. Del
resto, il proporzionale è l’unico sistema imparziale in un contesto
politico non bipolare come è l’attuale. Nell’incertezza su chi potrebbe
prevalere schiacciando i soccombenti (sia il Pd, il Movimento 5 stelle o
la coalizione di destra) è, alla fine, nell’interesse di tutti. Finirà
presumibilmente così. È difficile ammetterlo e dirlo, perché sembra di
voler ritornare indietro nel tempo. Ma occorre pur riconoscere che il
progetto di portare in Italia il bipartitismo o il bipolarismo è
fallito. Qualunque premio (che sarebbe più corretto chiamare “di
minoranza”: il premio di maggioranza era quello del ’53, che avrebbe
operato a favore di chi avesse ottenuto la maggioranza dei voti) è un
rischio per tutti e, in un sistema tri — o multipolare, sebbene sia
stato salvato dalla Corte costituzionale, altererebbe la rappresentanza
in modo incompatibile con la democrazia rappresentativa.
E la “governabilità”? Governare è dei
governanti. Sono loro a dover garantire la governabilità e non c’è
nessun marchingegno elettorale che può garantirla in carenza di senso di
responsabilità, come dovremmo sapere noi in Italia senza possibilità di
sbagliarci. Occorreranno coalizioni e compromessi? È probabile. Ma le
coalizioni e i compromessi non sono affatto cose negative, sono anzi
nell’essenza della democrazia pluralista: dipende da chi le e li fa, in
vista di quali obbiettivi e a quali condizioni. Non sono necessariamente
“inciuci”, per usare il nostro squallido linguaggio.