A rischio il Servizio sanitario pubblico con l’«autonomia differenziata»

di Enzo Paolini - Il Manifesto - 13/02/2019

In varie città – a Roma, Bari, Cosenza – si è parlato di autonomia differenziata, cioè del progetto, molto concreto – e già in fieri con il referendum lombardo del 2017 – di una e propria riforma costituzionale spacciata per applicazione dell’art. 116 della stessa Costituzione.

L’Osservatorio del sud, piccola palestra di discussione animata da Piero Bevilacqua e da liberi pensatori suoi pari, ha organizzato questa semina di dissenso nell’auspicio di raccogliere qualcosa nell’arido campo della sinistra. È ben chiaro che la provocazione non è rivolta alla sedicente classe dirigente, impegnata tutta ai gargarismi precongressuali e totalmente disinteressata a cosa avviene realmente nelle Istituzioni ed alle nefaste conseguenze che ciò porterà nel Paese. Sarebbe inutile.

SI È DETTO, parlando invece ai cittadini, di come e perché la realizzazione della cosiddetta «autonomia differenziata» nei termini preposti dalla Lega e sciaguratamente accettati dal M5S mette a rischio il principio fondamentale della nostra convivenza civile e cioè l’unità della Repubblica più che una riforma, un vero e proprio scardinamento della Costituzione.

PRENDIAMO il servizio sanitario. L’art. 116, terzo comma della Costituzione, già consente l’attribuzione alle regioni di competenze statali riguardo ai principi fondamentali in materia di salute. Una «devolution» (il termine usato per rendere potabile la cessione di sovranità dallo Stato alle Regioni) che ha prodotto molti danni in termini di efficacia ed efficienza del servizio ed ancora di più sul piano delle pratiche di malaffare in un settore dove girano a mille i soldi ed i voti.

Con l’autonomia differenziata cadrebbero molti vincoli.

Negli atti preliminari ed accompagnatori al disegno di legge si afferma che l’obiettivo sarebbe quello di «una maggiore autonomia nello svolgimento delle funzioni relative al sistema tariffario, di rimborso, di remunerazione e di compartecipazione limitatamente agli assistiti residenti nella regione…», poi per «la selezione della dirigenza sanitaria»….«per l’organizzazione rete ospedaliera» e per «assistenza farmaceutica», superando i «vincoli di bilancio nell’equilibrio economico- finanziario».

TRADUCIAMO: siccome il gettito fiscale delle Regioni del nord deve rimanere in gran parte sul territorio occorre che a deciderne la spesa sia la politica locale e che ad usufruire del servizio sia solo la popolazione ivi residente.

Dunque tra pochi giorni, grazie al governo gialloverde verrà cancellata una delle grandi conquiste di civiltà del nostro paese: il Servizio sanitario nazionale improntato ai principi di universalità e solidarietà in base al quale tutti i cittadini italiani, indipendentemente dalle loro origini, dalla loro residenza, dal censo sono curati allo stesso modo con oneri a carico dello stato, mediante il prelievo fiscale su base proporzionale. Si chiamava perequazione fiscale e grazie ad essa le classi più ricche pagavano più tasse per aiutare quelle più povere a curarsi, ad istruirsi, ad avere i servizi di base.

Un sistema che ha fatto crescere – e non poco – il nostro Paese dandoci un servizio sanitario di eccellenza e una classe medica di primo livello.

OGGI IL GOVERNO propone che queste regioni stabiliscano i propri LEA (i livelli essenziali di assistenza) le proprie tariffe, la propria rete ospedaliera, la propria spesa farmaceutica e che paghi il tutto con i propri soldi anche in difformità dei vincoli di bilancio stabiliti dallo Stato e validi nelle altre regioni. Naturalmente riservando tutto ciò solo all’assistenza dei propri residenti.

Dunque, un torinese o un modenese potranno avere livelli di assistenza più estesi, potranno accedere ad una rete ospedaliera più moderna ed efficiente, ed avranno una assistenza farmaceutica maggiore di quella attuale. Gli ospedali, pubblici e privati, delle loro città e della loro regione potranno avere rimborsi maggiori e comunque godere di sostegni finanziari non condizionati dalle ripartizioni negoziate nella conferenza Stato-Regioni. Potranno assumere più medici ed ottenere servizi accessori di maggiore qualità.

Benefici, indiscutibilmente auspicabili per tutti, ma il punto è proprio questo. Vi saranno, ma riservati solo ai cittadini residenti nelle regioni “ad autonomia differenziata”.

INSOMMA in questo modo (ed in questo mondo) il calabrese sarà sempre meno assistito nella sua regione, che potendo contare solo sul gettito fiscale dei propri cittadini, sarà sempre più povera e sempre meno in grado di assicurare i LEA, di costruire e mantenere ospedali degni e di assicurare cure efficienti (al netto delle ruberie e nonostante il valore e l’eroismo dei suoi medici). E se vuole curarsi a Milano (cioè in una regione che tutela solo i propri residenti) dovrà pagare.
Come non accorgersi della perdita di uno dei valori fondanti della società che hanno costruito le generazioni che ci hanno preceduto?

COME NON CAPIRE che il silenzio della sinistra su tutto ciò è la pietra tombale sulla possibilità e sulla speranza di ricostruire un senso di comunità che abbiamo smarrito da oltre un lustro?

Come non chiedere, che il tutore dell’unità nazionale, il Presidente della Repubblica, si opponga, come è nelle sue facoltà, ad una legge che prepara – contro la Costituzione – la disgregazione sociale e lo smembramento dell’unità nazionale?

Come non battersi per consentire a tutti i cittadini – proprio tutti – di poter contare sulle risorse derivanti dal lavoro di una comunità intera che solo in quanto tale – cioè unione di cittadini liberi e solidali cresce e prospera mentre muore se alza muri e afferma la segregazione?

Insomma le giornate dell’Osservatorio del Sud hanno dimostrato che c’è una occasione politica decisiva per la sinistra, quella che si fa sentire quando sono in gioco i diritti fondamentali.

E non si tratta di alzare la voce. Basta alzare la testa.

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