GUSTAVO ZAGREBELSKY: VEDO PIÙ IMPOLITICA CHE ANTIPOLITICA

di Gustavo Zagrebelsky - 09/11/2017
«A differenza di qualche anno fa, oggi vedo più impolitica che antipolitica». Così Gustavo Zagrebelsky, presidente emerito della Corte costituzionale, interpreta la stagione politica che volge alle elezioni.

Qual è la differenza?

«L’antipolitica è un’energia che può essere mobilitata “contro”: i partiti, i politici di professione, la democrazia parlamentare. Non è un caso che il populismo sia antipolitico e mobilitante. In un certo senso, è un atteggiamento attivo. L’ impolitica è l’ esatto contrario: è un atteggiamento passivo, di ritrazione, di stanchezza. Un modo di dire: lasciatemi in pace».

Quali sono i segnali di questo cambiamento?

«La si può misurare con i numeri sempre più scarsi di coloro che scendono in piazza, che seguono i talk show politici, che vanno a votare. L’impolitico è pronto a sopportare qualunque cosa. L’antipolitico, invece, è disposto a mobilitarsi. Si potrebbe dire che l’impolitica è la fase suprema dell’antipolitica, quando non si crede neppure più al populismo».

Abbiamo visto le conseguenze dell’antipolitica. Quali possono essere quelle del diffondersi di sentimenti impolitici?

«L’astensionismo non è solo quantità, ma anche qualità. Favorisce la corruzione di quel che resta della politica, poiché inaridisce il voto d’ opinione, mentre gli scambisti di voti e favori non si astengono di certo. Dunque cresce l’ incidenza percentuale del consenso ottenuto con metodi collusivi. Mi stupisco che non ci sia allarme. Il silenzio della classe politica è forse un segno di accondiscendenza?».

Ci sono altre peculiarità di questo fenomeno?

«L’astensionismo cresce in generale, ma non quando ai cittadini viene data la possibilità di votare contro i partiti. Allora si scuotono. Nel referendum costituzionale come in quello per l’ autonomia in Veneto. Si è votato su un quesito come “volete più autonomia?”. È come chiedere: “volete più soldi? Più salute?”. Le analisi dei flussi segnalano un forte contributo dell’ elettorato del M5S. Non è stato un voto per separar-si, ma per separar-li. Loro sono i partiti».

La vicenda del Rosatellum aumenta la disaffezione?

«E’ stata tutta interna al Palazzo. La maggioranza dell’ opinione pubblica ha capito la posta in gioco e ha pensato: è un problema dei partiti, noi non c’ entriamo, se la vedano tra di loro. La rabbia, se c’ è, non si manifesta più».

Qual era la posta in gioco?

«Di tutte le leggi, quella elettorale più delle altre dovrebbe essere fatta per i cittadini-elettori. Ma la scrivono i partiti, che la usano per tutelare innanzitutto i propri interessi. È una contraddizione della democrazia. Proprio per questo ci devono essere dei correttivi».

Quali potrebbero essere?

«C’ è una regola aurea che viene dall’ Europa: non si cambiano le leggi elettorali nell’ anno antecedente le elezioni. Così, i calcoli utilitaristici sarebbero più difficili e potrebbe fare capolino qualcosa come la “giustizia elettorale”».

Ma l’ Europa è lontana, per parafrasare una canzone di Lucio Dalla.

«Ci sono la Corte costituzionale e il presidente della Repubblica. La Corte, però, è fuori gioco perché il suo intervento, peraltro difficile dal punto di vista procedurale, sarebbe tardivo. Arriverebbe dopo le elezioni e un’ assurda giurisprudenza ha detto che un Parlamento eletto con una legge elettorale incostituzionale può tranquillamente starsene al suo posto».

E il Presidente della Repubblica?

«Non ha rilevato evidenti motivi d’ incostituzionalità. Mah! Che dire del voto unico: voto per il candidato nel collegio uninominale e devo trascinarmi dietro una lista di nomi nelle liste proporzionali per i quali non vorrei votare? Una sorta di pacco-sorpresa».

Si aspettava altro dal Quirinale?

«Al punto in cui si era giunti, era difficile credere a un rinvio della legge. Avrebbe assunto il significato d’ una dichiarazione di guerra contro un’ ampia maggioranza parlamentare. Ci sono cose giuste che non si possono più fare nel tempo sbagliato».

Che cosa intende dire?

«Che sarebbe stato necessario richiamare a tempo debito, fuori e prima della mischia, i limiti, “i paletti” d’ ogni onesta legge elettorale. Il presidente della Repubblica dispone d’ un potere d’ influenza che, mi pare, non sia stato esercitato».

Pensa anche alle questioni di fiducia posta dal governo?

«No, perché sono state un colpo di mano non previsto (anche se prevedibile) dell’ ultima ora».

Ma erano legittime, o no? Qualcuno ha evocato il fascismo, s’ è parlato di golpe.

«La questione di fiducia d’ iniziativa governativa non è citata nella Costituzione, si è affermata nella prassi parlamentare. La legge elettorale non riguarda l’ azione di governo, né risulta nel programma di questo governo. Si è trattato di un pretesto per imporre il voto palese a un Parlamento riottoso. Non c’ è stata violazione di alcuna norma costituzionale, però la vita politica non è fatta solo di legittimità ma anche di correttezza costituzionale e talora la scorrettezza è anche più grave dell’ illegittimità. E’ un chiaro caso di abuso del diritto».

Renzi ha fatto notare che con lo stesso metodo è passata la legge sulle unioni civili.

«Un pensiero inquietante. Un buon fine non sana un mezzo cattivo. Il fine giustifica i mezzi? Forse il contrario: un mezzo sbagliato può corrompere un fine giusto».

Che cosa pensa del comportamento del presidente del Senato Grasso?

«Ha difeso la dignità delle istituzioni, con un gesto dimostrativo che ha un contenuto di alta drammaticità. Il suo significato è questo: sono stato sottoposto a una violenza morale alla quale non potevo resistere. Detto dalla seconda carica dello Stato! Mi pare che ci sia affrettati, da parte di coloro dai quali quella pressione presumibilmente è provenuta, a passare oltre con ipocrite espressioni formali di rammarico».

Vede per Grasso un futuro politico, magari di governo?

«È una risorsa possibile che potrebbe rivelarsi preziosa in futuro. Tuttavia, quel suo gesto di protesta gli avrà certamente alienato molte simpatie negli ambienti che contano. Anche per questo merita non solo rispetto ma anche apprezzamento».

La Stampa, 6 Novembre 2017

 

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