Il Paesaggio abbandonato senza più tutele

di Salvatore Settis - Repubblica - 21/10/2014

Che fare se un impianto eolico viene a cadere in zona paesaggistica? Il 19 settembre il Consiglio dei Ministri ha emesso il verdetto: «dalla comparazione degli interessi coinvolti, individuati nella tutela paesaggistica e nella produzione di energia rinnovabile nonché nella valenza imprenditoriale ed economica, si considera prevalente l’interesse alla realizzazione dell’opera» emerso nella conferenza dei servizi. Otto delibere- fotocopia prese in un solo giorno (tutte riferite alla Puglia) non lasciano dubbi sull’intenzione del governo: capovolgere la gerarchia costituzionale dei valori, secondo cui la tutela del paesaggio è un «valore primario e assoluto» (Corte Costituzionale, sentenze 182/2006 e 367/2007), e pertanto non può essere «subordinata ad altri valori, ivi compresi quelli economici», anzi dev’essere «capace di influire profondamente sull’ordine economico-sociale » (sentenza 151/1986). Ma il vulnus alla Costituzione non è il solo: ritenendo di poter convalidare gli esiti di una conferenza di servizi, il Consiglio dei Ministri ignora la fondamentale sentenza del Consiglio di Stato secondo cui «il modulo della conferenza di servizi decisoria , applicato all’autorizzazione paesaggistica, non è idoneo a legittimare l’intervento, se non è seguito da autonoma, espressa e puntuale autorizzazione dell’ente competente » e se la Soprintendenza non si è espressa in senso favorevole (sentenza n. 2378 del 18 aprile 2011). Nell’ebbrezza di deregulation che aleggia a Palazzo Chigi, l’interesse delle imprese prende il sopravvento sul Consiglio di Stato, sulla Corte Costituzionale, sulla stessa Costituzione.

Questa è, del resto, la ratio che ispira il decreto Sblocca-Italia. Non più regole, ma sfrenata cessione del territorio alle imprese; non più istituzioni, ma negoziati in penombra fra poteri politici ed economici. Non più cittadini, ma clienti o spettatori. Questo e non altro è il contetiva sto in cui va giudicata la riforma del Ministero dei Beni Culturali varata il 29 agosto. Che senso ha riorganizzare le Soprintendenze mentre viene smontata la loro competenza più importante, la tutela del paesaggio? E che senso ha, soprattutto, farlo al ribasso, cioè con le forche caudine di una spending review?

La riforma Franceschini riduce le competenze delle Direzioni regionali, filtro burocratico che ha sottratto personale e competenze alle Soprintendenze territoriali e che sarebbe ancor meglio abolire del tutto. Ma rimaneggia tutto il resto, accorpando le Soprintendenze ai beni storico-artistici con quelle ai beni architettonici, disfacendo alcuni Poli museali (come quello di Firenze) e creandone altri a base regionale (per esempio in Emilia-Romagna), dando autonomia amministra- e contabile a 20 musei o siti archeologici, con scelte a volte incomprensibili (il più grande museo archeologico del mondo, quello di Napoli, relegato in “seconda fascia”). In Emilia, l’autonomia è stata concessa alla sola Galleria Estense di Modena (20.000 visitatori l’anno), mentre tutto il resto, compresi i musei di Parma con 210.000 visitatori l’anno, è stato burocraticamente accorpato in un disfunzionale polo regionale guidato da Bologna: a notarlo, sul Giornale dell’arte, è lo stesso direttore dell’Estense, Davide Gasparotto, un ottimo studioso che peraltro sta per lasciare l’Italia per diventare Senior Curator of Paintings al Getty: pessimo segnale per lo stato di salute di un’Amministrazione che perde pezzi non solo per il pensionamento degli addetti (58 anni l’età media), ma anche perché ormai se ne vanno, sfiduciati, anche i più giovani.

Intanto la struttura centrale del Ministero accresce la propria obesità arrivando a ben 12 direzioni generali (erano 4 fino al 2001). Quali che fossero le intenzioni del Ministro, l’effetto di una riforma che redistribuisce ruoli, competenze e persone mentre taglia i fondi secondo la logica della spending review non può essere che uno: un balletto di poltrone, una danza di etichette, un calo di funzionalità e di efficienza. Chiamiamolo, per spiegarci, l’effetto Gelmini: la riforma del ministro berlusconiano (“la ragazza con la pistola” incaricata di demolire l’università italiana) ha abolito le Facoltà rinominandole Dipartimenti, introdotto macchinose procedure di reclutamento, decimato le cattedre, precarizzato gli insegnanti, tagliato i fondi anche per la ricerca, generando uno stallo i cui effetti, già visibili, diventeranno ben presto tragici. Ma nessuna riforma dei Beni Culturali può riuscire se non si congiunge a forti investimenti, a un rinsanguamento del personale con massicce assunzioni di giovani di qualità. E a un rilancio delle Soprintendenze come enti di ricerca territoriale, che secondo la grande lezione di Giovanni Urbani dovrebbero studiare i temi della conservazione del patrimonio artistico in rapporto all’ambiente, al paesaggio, all’urbanistica; per non dire dell’urgente necessità di rivedere le procedure di formazione del personale, ammesso che un qualche personale ci sia nel futuro del Ministero. Di tutto ciò, nulla è all’orizzonte.

Prima ancora che si vedano gli effetti dei Poli museali disfatti e di quelli rifatti, il vero banco di prova del Ministero è la capacità di contrastare la deregulation selvaggia della tutela paesaggistica: perché «il paesaggio è la risorsa delle risorse» (R. Pazzagli). O, se vogliamo dirlo in positivo, la volontà politica, del governo e della sinistra, di sostenere attivamente i piani paesaggistici regionali. Da esempio e pilota può servire quello della Toscana, adottato dal Consiglio Regionale, secondo la legge, in copianificazione con il Ministero dopo una fase conoscitiva (promossa dall’assessore Marson) condotta con particolare attenzione e serietà. Forse proprio per questo il piano è osteggiato da amministratori locali e imprese in nome di un indiscriminato “padroni in casa propria” in cui ogni sindaco e ogni impresa detta legge, dimenticando che “padroni” del territorio, a titolo di sovranità (art. 1 della Costituzione), sono i cittadini, e che l’interesse generale deve prevalere sul profitto dei singoli. Il Ministero farà la sua parte? Vogliamo l’Italia delle regole o quella della deregulation? Vogliamo rispettare la Costituzione o cestinarla? Vogliamo considerare il Ministero dei Beni Culturali un organo di smistamento di poltrone o il massimo garante della tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della Nazione?

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