L’avvertimento del Presidente ecuadoriano: «L’Europa indebitata ripete i nostri errori»

di Le Monde Diplomatique – n° 717 – (Traduzione dal francese di José F. Padova) - 02/12/2013
In occasione di una conferenza tenuta alla Sorbona il 6 novembre scorso, il presidente dell’Ecuador Rafael Correa (*) si è rivolto ai suoi omologhi europei a proposito della gestione della crisi del debito pubblico. La quale gestione sarebbe caratterizzata da una sola ossessione: garantire gli interessi della finanza. Qui troviamo una sintesi della sua riflessione

Noi, latino-americani, siamo esperti in crisi. Non perché saremmo più intelligenti degli altri, ma perché le crisi le abbiamo subite tutte. E le abbiamo gestite malamente, in modo terribilmente sbagliato, perché avevamo una sola priorità: difendere gli interessi del capitale, anche a rischio di far precipitare il subcontinente in una lunga crisi debitoria. Oggi con preoccupazione osserviamo l’Europa seguire a sua volta il medesimo cammino.

Negli anni ’70 i Paesi latino-americani sono entrati in una situazione di indebitamento intensivo con l’estero. La storia ufficiale afferma che questa situazione è il risultato di politiche portate avanti da governi «irresponsabili» e di squilibri accumulati a causa del modello di sviluppo adottato dal subcontinente dopo la guerra: la creazione di un’industria in grado di produrre localmente i prodotti importati, ovvero «industrializzazione come sostituto delle importazioni».

Questo profondo indebitamento, di fatto, è stato promosso – e perfino imposto – dagli organismi finanziari internazionali. La loro pretesa logica voleva che, grazie al finanziamento di progetti ad alta redditività, che all’epoca abbondavano nei Paesi del Terzo Mondo, si sarebbe approdati allo sviluppo, mentre il rendimento di questi investimenti avrebbe permesso di rimborsare i debiti contratti.

Tutto questo è durato fino al 13 agosto 1982, quando il Messico dichiarò la propria incapacità di fare fronte alle scadenze. Da allora tutta l’America latina ebbe a soffrire la sospensione dei prestiti internazionali, contemporaneamente al brutale aumento dei tassi d’interesse sul suo debito. Prestiti che erano stato contratti al 4% o al 6%, ma con tassi variabili, hanno improvvisamente raggiunto il 20%. Mark Twain diceva: «Un banchiere è qualcuno che vi presta un ombrello quando il sole splende e che se lo riprende quando comincia a piovere…».

La nostra crisi del debito è cominciata così. Durante il decennio ’80, l’America Latina ha effettuato un trasferimento netto di risorse ai suoi creditori di 195 miliardi di dollari (quasi 554 miliardi di dollari al valore attuale). Allo stesso tempo il debito estero dell’intera Regione passava quindi da 223 miliardi di dollari nel 1980 a… 443 miliardi di dollari nel 1991! Non già a causa di nuovi crediti, ma per il rifinanziamento e l’accumulo degli interessi.

Di fatto il subcontinente ha visto concludersi il decennio 1980 con gli stessi livelli di reddito per abitante degli anni ’70. Si parla di un «decennio perduto» per lo sviluppo. In realtà perduta fu un’intera generazione.

Benché le responsabilità fossero condivise, i Paesi dominanti, le burocrazie internazionali come il Fondo Monetario Internazionale (FMI), la Banca Mondiale e la Banca interamericana per lo sviluppo, come beninteso anche le banche private internazionali, hanno sintetizzato la situazione come un problema di indebitamento eccessivo degli Stati (overborrowing). Mai si sono assunti la loro responsabilità nella concessione irragionevole di crediti (overlending), ovvero per l’altra faccia della situazione.

Le pesanti crisi di bilancio e d’indebitamento esterno causate dal trasferimento netto di risorse dell’America latina verso i suoi creditori hanno portato un buon numero di Paesi della Regione a redigere «lettere d’intenti» dettate dal FMI. Questi accordi impegnativi permettevano di ottenere prestiti da parte di quell’organizzazione, come pure garanzie per la rinegoziazione dei debiti bilaterali con i Paesi creditori, riuniti nel Club di Parigi.

Carenza di dirigenti e d’idee
I programmi di adeguamento strutturale e di stabilizzazione hanno imposto le prescrizioni di sempre: austerità di bilancio, aumento del prezzo dei servizi pubblici, privatizzazioni, ecc. Altrettante misure attraverso le quali non si cercava di uscire al più presto dalla crisi, né di alimentare la crescita o l’occupazione, ma di garantire il rimborso dei crediti delle banche private.

Alla fine dei conti, i Paesi colpiti erano sempre indebitati, non più con questi istituti, ma con gli organismi finanziari internazionali, che proteggevano gli interessi delle banche.

All’inizio degli anni ’80 un nuovo modello di sviluppo ha iniziato a imporsi nell’America latina e nel mondo: il neoliberismo. Questo nuovo accordo sulla strategia di sviluppo è stato soprannominato «accordo di Washington», poiché i suoi principali progettisti e promotori erano gli organismi finanziari e multinazionali la cui sede si trovava a Washington. Secondo la logica in voga la crisi in America latina era dovuta a un intervento eccessivo dello Stato nell’economia, all’assenza di un adeguato sistema di prezzi liberi e all’allontanamento dei mercati internazionali – sottintendendo che queste caratteristiche derivavano dal modello latino-americano d’industrializzazione mediante sostituzione delle importazioni.

Come conseguenza di una campagna di marketing ideologico senza precedenti, mascherata da ricerca scientifica, e di pressioni dirette esercitate dal FMI e dalla Banca Mondiale, la Regione è passata da un estremo all’altro: da diffidenza verso il mercato e fiducia eccessiva nello Stato al libero scambio, alla de-regolazione e alle privatizzazioni.

La crisi non è stata soltanto economica; è il risultato di una carenza di dirigenti e d’idee. Abbiamo avuto paura di pensare per conto nostro e abbiamo accettato in modo tanto passivo quanto assurdo i diktat stranieri.

La descrizione della crisi che ha attraversato l’Ecuador sarà senza dubbio famigliare a moltissimi europei. L’Unione Europea soffre di un indebitamento prodotto e aggravato dal fondamentalismo neoliberista. Pur rispettando la sovranità e l’indipendenza di ogni zona del mondo, siamo sorpresi nel constatare che l’Europa, pur essendo così illuminata, ripeta in ogni punto gli errori commessi dall’America latina.

Le banche europee hanno prestato alla Grecia pretendendo di non aver visto che il suo deficit di bilancio era quasi tre volte superiore a quello dichiarato dallo Stato. Si pone nuovamente il problema di un eccessivo indebitamento del quale si omette di evocare la contropartita: l’eccesso di credito. Come se il capitale finanziario non avesse mai la minima parte di responsabilità.

Dal 2010 al 2012 la disoccupazione in Europa ha raggiunto livelli allarmanti. Fra il 2009 e il 2012 il Portogallo, l’Italia, la Grecia, l’Irlanda e la Spagna hanno ridotto le loro spese di bilancio del 6,4% in media, arrecando così gravi danni ai servizi sanitari ed educativi. Si giustifica questa politica con un deficit di risorse, ma considerevoli importi sono stati liberati per rimettere a galla il settore finanziario. In Portogallo, in Grecia e in Irlanda la somma complessiva di questo salvataggio bancario supera il totale dei salari annui.

Mentre la crisi colpisce duramente i popoli europei si continua a imporre loro le misure che ovunque nel mondo hanno fatto fiasco.

Prendiamo l’esempio di Cipro. Come sempre, il problema comincia con la de-regolazione del settore finanziario. Nel 2012 la sua cattiva gestione diventa insostenibile. Le banche cipriote, la Banca di Cipro e la Laiki Bank in particolare, avevano concesso alla Grecia prestiti privati per un importo superiore al PIL cipriota. Nell’aprile 2013 la «troika» - FMI, BCE e Commissione europea – propone un «salvataggio» di 10 miliardi di euro. Lo condiziona a un programma di aggiustamento che include la riduzione del settore pubblico, la soppressione del sistema pensionistico dei nuovi funzionari, la privatizzazione delle imprese pubbliche strategiche, correzioni di bilancio fino al 2018, limitazione delle spese sociali e creazione di un «fondo di salvataggio finanziario», il cui obiettivo è il sostegno delle banche e la soluzione dei loro problemi, oltre al congelamento dei depositi superiori a 100.000 euro.

Nessuno dubita che siano necessarie riforme, che occorra correggere gravi errori, ivi compresi quelli originari: l’Unione Europea ha integrato Paesi con importanti differenziali nella produttività, che i salari nazionali non riflettono. Resta il fatto che, nell’essenza, le politiche applicate non cercano di uscire dalla crisi al minor costo per i cittadini europei, ma a garantire il pagamento del debito alle banche private.

Abbiamo evocato Paesi indebitati. Che ne è dei privati cittadini incapaci di rimborsare i loro debiti? Prendiamo il caso della Spagna. La mancanza di regolamentazione e il troppo facile accesso al denaro delle banche spagnole hanno generato un’immensa quantità di crediti ipotecari che hanno galvanizzato la speculazione immobiliare. Le banche stesse cercavano i clienti, stimavano il valore dei loro immobili e continuavano sempre più a fare credito, per l’acquisto di un’auto, di mobilio, di elettrodomestici, ecc.

Quando scoppia la bolla immobiliare il mutuatario in buona fede non può più rimborsare il suo prestito: non c’è più lavoro. Gli si porta via la casa, ma questa vale molto meno di quando lui l’ha comperata. Nel 2012 si sono registrati ogni giorno più di duecento sfratti, ciò che spiega una gran parte dei suicidi in Spagna.

Una questione si pone: perché non si fa ricorso a rimedi che sembrano evidenti e perché si ripete sempre lo scenario peggiore? Perché il problema non è tecnico, ma politico. È determinato da un rapporto di forze. Chi dirige le nostre società? Gli umani o il capitale?

Il torto più grande che si è fatto all’economia è di averla sottratta alla sua natura originaria di economia politica. Ci si è fatto credere che tutto era tecnico; si è mascherata l’ideologia come scienza e, incoraggiandoci a prescindere dai rapporti di forze all’interno di una società, siamo stati messi tutti al servizio dei poteri dominanti, di ciò che io chiamo l’«impero del capitale».

La strategia dell’indebitamento intensivo che ha generato la crisi del debito latino-americano non mirava ad aiutare i nostri Paesi a svilupparsi. Obbediva invece all’urgenza di collocare le eccedenze di denaro che inondavano i mercati finanziari del «primo mondo», i petrodollari che i Paesi arabi produttori di petrolio avevano piazzato nelle banche dei Paesi sviluppati. Queste liquidità provenivano dal rialzo del prezzo del petrolio conseguente alla guerra dell’ottobre 1973, poiché questi prezzi erano stati mantenuti a livelli elevati dall’Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio (OPEP). Fra il 1975 e il 1980 i depositi presso le banche internazionali sono passati da 82 miliardi di dollari a 440 miliardi (1226 miliardi di dollari attuali).

Di fronte alla necessità di collocare quantità di denaro tanto ingenti il Terzo Mondo ha suscitato interesse. Così è cominciata, a partire dal 1975, la sfilata dei banchieri internazionali desiderosi di piazzare ogni sorta di crediti – ivi compresi quelli destinati a finanziare le spese correnti e l’acquisto di armi da parte delle dittature militari che governavano un gran numero di Stati. Questi zelanti banchieri, che non si erano mai fatti vedere nel Subcontinente, neppure come turisti, hanno anche portato grosse valigie di bustarelle e mazzette ai funzionari, per fare loro accettare nuovi prestiti, con pretesti qualsiasi. Allo stesso tempo gli organismi finanziari internazionali e gli enti per lo sviluppo hanno continuato a vendere l’idea secondo la quale la soluzione era l’indebitamento.

Un’ideologia camuffata da scienza
L’indipendenza delle banche centrali, che di fatto serve a garantire la continuità del sistema qualunque sia il verdetto delle urne, all’inizio degli anni ’90è stata imposta come una necessità «tecnica», giustificata da sedicenti studi empirici, che dimostravano come un dispositivo di quel genere generasse migliori risultati macroeconomici. Secondo quelle «ricerche» le banche centrali indipendenti potevano agire in modo «tecnico», lungi da perniciose pressioni politiche. Sulle basi di un’argomentazione tanto assurda bisognerebbe rendere ugualmente autonomo il ministero delle Finanze, perché la politica di bilancio dovrebbe anch’essa essere puramente «tecnica». Come l’ha suggerito Ronald Coase, premio Nobel per l’economia, i risultati di quegli studi si spiegavano così: si erano messi sotto tortura i dati economici fino a fare dire loro ciò che da loro si voleva sentire.

Nel periodo che ha preceduto la crisi le banche centrali autonome si sono consacrate esclusivamente a mantenere la stabilità monetaria, vale a dire a controllare l’inflazione, nonostante avessero svolto un ruolo fondamentale nello sviluppo di Paesi come il Giappone o la Corea del Sud. Fin agli anni ’70 l’obiettivo fondamentale della Federal Reserve era quello di favorire la creazione di posti di lavoro e la crescita economica; soltanto con le pressioni inflazionistiche dell’inizio degli anni ’70 è stato aggiunto il compito di promuovere la stabilità dei prezzi.

La priorità attribuita alla stabilizzazione dei prezzi significa ugualmente, in pratica, l’abbandono delle politiche miranti a mantenere il pieno impiego delle risorse nell’economia. Al punto che, invece di attenuare gli episodi di recessione e di disoccupazione, la politica di bilancio, comprimendo senza sosta le spese, li aggrava.

Le banche centrali dette «indipendenti», che si preoccupano unicamente di stabilità monetaria, fanno parte del problema, non della soluzione. Sono uno dei fattori che impediscono all’Europa di uscire più rapidamente dalla crisi.

Tuttavia le capacità europee rimangono intatte. Voi disponete di tutto: il talento umano, le risorse produttive, la tecnologia. Credo si debba trarne conclusioni forti: si tratta di un problema di coordinamento sociale, cioè di politica economica della domanda, o come si vorrà chiamarla. Al contrario, i rapporti di potere all’interno dei vostri paesi e a livello internazionale sono tutti favorevoli al capitale, in particolare a quello finanziario, motivo per il quale le politiche applicate sono contrarie a ciò che sarebbe socialmente auspicabile.

Randellati dalla sedicente scienza economica e dalle burocrazie internazionali, un gran numero di cittadini sono convinti che «non vi sia alternativa». Essi si sbagliano.

 

*Rafael Correa, Presidente della Repubblica dell’Ecuador, dottore in economia. Autore dell’opera « Equateur. De la république bananière à la non-république» (Ecuador. Dalla Repubblica delle banane alla non-repubblica), Utopia, Paris, 2013.

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