Siamo un Paese normale? Sono trascorse due settimane dalla pronuncia con cui la Corte d’Assise di Palermo ha messo nero su bianco che lo Stato trattò con la mafia negli anni terribili dello stragismo 1992-94. I giudici hanno ritenuto provati fatti gravissimi, che hanno coinvolto non solo mafiosi ma anche uomini dello Stato ai più alti livelli, tra politici (Marcello Dell’Utri, il collante tra politica e mafia in quanto fondatore del partito che condiziona la vita politica del Paese da più di vent’anni) e vertici dei carabinieri e dei servizi segreti (i gen. Mori e Subranni, e il col. De Donno), con condanne pesantissime. Non erano dunque visionari i pm di Palermo, che hanno subìto anni di indegni attacchi, anche da parte delle istituzioni che avrebbero dovuto difenderli.

È stata una sentenza ancor più che storica, direi “epocale”. Innanzitutto perché riscrive la storia di un’epoca, definita Seconda Repubblica o “ventennio berlusconiano”, ma che va ridefinita la “Repubblica della Trattativa”, avendo stabilito che la nostra democrazia è macchiata dal peccato originale di quel patto di convivenza politico-mafioso. Un indicibile accordo con cui lo Stato si è piegato alla mafia e sull’altare del quale furono sacrificate le tante vittime innocenti di quegli anni di sangue. Uccisi dallo Stato attraverso quel patto solo per salvare una casta di politici della Prima Repubblica già condannati a morte dalla mafia se non si trovava una via d’uscita. E la via d’uscita si trovò, consacrata dal patto alla fine stipulato da B. anche grazie al silenzio complice dell’opposizione apparente. Sentenza epocale anche perché dovrebbe segnare una svolta, uno spartiacque. Basta con i patti e la convivenza con la mafia. Questo ci saremmo aspettati sentir dire dal nostro presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, anch’egli vittima di mafia in un altro tragico snodo di conflitto col potere politico-mafioso (l’omicidio del fratello Piersanti, presidente della Regione Siciliana, il 6 gennaio 1980). Invece nulla.

In qualsiasi Paese al mondo una sentenza come questa avrebbe provocato un terremoto politico-istituzionale, espulsioni dalla scena politica dei protagonisti di quella stagione come B., commissioni d’inchiesta, speciali tv di informazione e approfondimento, mobilitazioni popolari di cittadini indignati a chieder conto di essere stati svenduti alla mafia a loro insaputa. In Italia non è accaduto nulla di tutto questo. Vuoto pneumatico. A parte poche eccezioni, la sentenza è stata spinta nel dimenticatoio, relegata tra le notizie minori e poi sparita. Si è incredibilmente dato più risalto e spazio all’assoluzione di Nicola Mancino, accusato di un reato minore (falsa testimonianza), e non decisivo nell’economia dell’accusa, che non alla gravità delle condanne pronunciate e il loro significato. Dimenticando che gli uomini politici devono rispondere ai cittadini, non solo alla giustizia, delle loro condotte, e Mancino era ministro dell’Interno nei primi due governi con i quali – dice la sentenza – si stava svolgendo la trattativa. Allora, è impensabile che un ministro dell’Interno possa impunemente sostenere di non averne mai saputo nulla: o mente perché ha trattato oppure deve sapere chi poteva gestirla a sua insaputa, e poi deve convincere gli italiani della sua versione. Neppure questo. Una sapiente opera di rimozione, perché gli italiani non abbiano neanche la “tentazione” di sapere.

Lo Stato, la politica, si sono già autoassolti, malgrado la condanna giudiziaria. Chi chiede verità e giustizia è un sovversivo e la sentenza di due settimane fa un incidente di percorso, da dimenticare. Non sia mai che qualche magistrato pensasse di indagare su ciò che accadde per effetto della trattativa, coinvolgendo i più alti livelli politici del tempo in complicità nelle stragi o nei favori dovuti a Cosa Nostra per il patto! Anzi, qualcuno fra un po’ tornerà a parlare di “presunta trattativa”, presunta innocente fino a sentenza definitiva. No, non siamo per nulla un Paese normale.