E’ davvero un ritorno all’antico il nuovo piano di misure
sull’immigrazione e l’asilo, annunciato dal ministro dell’Interno, Marco
Minniti, di concerto col capo della Polizia, Franco Gabrielli: tutte
all’insegna del più puro spirito repressivo e sicuritario; tutte volte
ad accelerare la macchina dei rastrellamenti e delle espulsioni, non
importa quanti e quali diritti fondamentali si violino. Lo scopo
asserito è la moltiplicazione del numero di espulsioni dalle attuali
cinquemila a diecimila, con l’ambizione di arrivare addirittura a
ventimila, nonché l’incremento dei rimpatri forzati tramite nuovi
accordi bilaterali con paesi di provenienza.
Questo scopo, a
sua volta, è dichiarato come funzionale a combattere il terrorismo
jihadista: come se esso non fosse anzitutto, per citare Alain Bertho, “una mortifera espressione contemporanea”
della rabbia sociale e della rivolta, che la sola logica poliziesca e
militare di sicuro non riuscirà ad annientare. Tuttavia, una finalità
complementare del piano Minniti sembra essere quella di compiacere gli
umori popolari più malsani, con l’illusoria aspettativa di sottrarre
terreno alla destra dichiarata: è la strategia consueta dei “riformisti”
allorché sono al governo.
Il piano evoca persino un passato
assai infelice, se è vero che, tra l’altro, prevede che i
richiedenti-asilo svolgano lavoro gratuito – a vantaggio non solo di
enti locali, ma anche di aziende private –, in attesa che le commissioni
si pronuncino sulla loro domanda. Per quanto definito con l’eufemismo
di “lavoro socialmente utile”, esso sarà, di fatto, una sorta di lavoro
forzato, essendo concepito come uno dei requisiti per ottenere lo status
di rifugiato.
Il che equivarrebbe a sovvertire la Convenzione
di Ginevra e il diritto internazionale. L’asilo è, infatti, un diritto
soggettivo che non può essere subordinato a imposizioni o ricatti. Non
per caso v’è l’obbligo di esaminare le richieste caso per caso, tenendo
conto delle storie individuali e della forma di persecuzione subita
personalmente. Se a ciò si aggiunge la prevista abolizione del grado di
appello per i richiedenti-asilo – la cui domanda sia stata respinta
dalla commissione ad hoc, nonché da un giudice, in caso di ricorso –, ci
si rende conto di come s’intenda fare carta straccia d’un tal diritto
fondamentale.
Un’altra grave misura prevista è quella della moltiplicazione dei Cie (Centri d’identificazione ed espulsione),
su cui conviene soffermarci più a lungo. Anche perché lo stesso
ministro dell’Interno, almeno fino alla sua conferenza-stampa del 5
gennaio scorso a Palazzo Chigi, sembrava non aver le idee chiare sulla loro vera natura.
C’illudevamo che i Cie avessero fatto il loro tempo e fossero destinati
a una progressiva scomparsa, se non altro perché risultati enormemente costosi e inefficaci
rispetto alla stessa finalità per cui sono stati istituiti: rendere
effettivi i provvedimenti di allontanamento coattivo di persone
immigrate prive del permesso di soggiorno. E, invece, dai quattro
attuali si passerà ad almeno venti, estesi in tutte le regioni, tranne
che in Molise e Valle d’Aosta. Per indorare la pillola, Minniti promette
che saranno di dimensioni ridotte (di cento posti al massimo), che gli
“ospiti” saranno tutelati da un’autorità garante del rispetto dei
diritti umani, che saranno riservati ai migranti irregolari i quali
siano anche “pericolosi socialmente”. In modo più crudo, Gabrielli dichiara che, sebbene siano già abitualmente presidiati dalle forze dell'ordine, egli non esclude l’uso dell’esercito.
Questi dettagli (alcuni piuttosto inquietanti) non sono destinati a
intaccare, se mai a rafforzare la natura intrinseca della detenzione
amministrativa: istituto extra ordinem, non foss’altro perché,
in palese violazione della Costituzione italiana, in particolare
dell’art. 13, fa del “trattenimento” uno strumento ordinario e non convalidato dall’autorità giudiziaria. In tal modo si priva della libertà personale una speciale categoria di persone, gli stranieri non comunitari, e non già per aver essi commesso un reato punibile con la reclusione.
In realtà, come nel 2014 rilevò, fra gli altri, il Rapporto sui centri d’identificazione ed espulsione
della Commissione diritti umani del Senato, nei Cie non vengono
rinchiusi solo gli stranieri “pericolosi”, come sostiene una certa
retorica istituzionale e mediatica. Vi finiscono, invece, le più varie
categorie di “stranieri/e”: potenziali richiedenti-asilo; giovani nati
in Italia da genitori immigrati; persone residenti legalmente da lungo
tempo, che, perso il lavoro, hanno perduto anche il permesso di
soggiorno; ex-detenuti che, pur scontata la condanna fino all’ultimo
minuto, sono sottoposti alla doppia pena; perfino cittadini comunitari o
minorenni rastrellati nel corso di indiscriminate operazioni
poliziesche: le stesse preannunciate da Gabrielli e probabilmente già in
corso. Può accadere che una donna tunisina, Nabruka Mimuni, residente
in Italia da più di vent’anni col marito e un figlio, sia fermata dalla
polizia mentre è in coda per rinnovare il permesso di soggiorno, sia
condotta nel Cie di Ponte Galeria e si tolga la vita la notte tra il 5 e
il 6 maggio 2009, poche ore prima del suo rimpatrio coatto.
Oltre a quello citato, nel corso degli anni è stata prodotta una gran
mole di rapporti e d’inchieste sui Cie per opera sia di associazioni fra
le più importanti, sia di istituzioni, anche europee: tutti accomunati
da giudizi severi nei confronti di una tale anomalia giuridica
e delle violazioni di diritti fondamentali che essa comporta.
Ricordiamo che a condannarli come veri e propri centri di detenzione,
lesivi della dignità umana, sono state anche una parte del mondo
giuridico nonché la stessa Corte europea.
Secondo le
contingenze politiche, nel corso del tempo i centri di detenzione hanno
cambiato nome, mutando anche la durata del “trattenimento”: dai trenta
giorni massimi iniziali si è arrivati, nel 2011, fino ai diciotto mesi.
Com’è ben noto, queste anomale strutture detentive furono istituite
dalla legge detta Turco-Napolitano (l. 40 del 6 marzo 1998) e previste
dall’art. 14 del Testo Unico sull’immigrazione (TU 286/1998), col nome di Cpta (poi abbreviato in Cpt): cioè Centri di accoglienza temporanea e assistenza,
designazione che cercava di celarne goffamente la vera natura dietro un
ossimoro eufemistico. Nel 2008, col quarto governo Berlusconi, che di
certo non aveva remore semantiche, assunsero il nome attuale, del tutto
esplicito. Oggi, ancora un cambiamento: si chiameranno Cpr (Centri di permanenza per il rimpatrio). Un nuovo ossimoro, ma, questa volta, niente affatto edulcorato: forse a comunicarci che i due fanno proprio sul serio.
In realtà, già a pochi mesi dall’istituzione di questi mostri giuridici
– che saranno a lungo e tuttora chiamati da media, anche mainstream, “centri di accoglienza” – se ne sperimentò la natura intrinsecamente perversa e funesta, perfino in senso letterale. Il
1° agosto 1998 Abdeleh Saber morì nel carcere di Agrigento, dove era
stato tradotto dopo una rivolta nel Cpt di Lampedusa: qui gli avevano
somministrato una dose eccessiva di psicofarmaci. Ugualmente imbottito
di psicofarmaci, Mohamed Ben Said morì la notte di Natale del 1999 nel
Cpt di Ponte Galeria (Roma). La mandibola fratturata, forse a causa del
trattamento ricevuto in carcere, per giorni e giorni aveva reclamato
cure mediche mai ricevute. Sposato con una cittadina italiana, quindi
inespellibile, Mohamed non avrebbe dovuto essere internato in quel
lager.
Quattro giorni dopo, la notte fra il 28 e il 29
dicembre, a Trapani, all’interno del Cpt “Serraino Vulpitta”, dopo un
tentativo di fuga duramente represso dalle forze dell’ordine, dodici
migranti furono rinchiusi in una cella la cui porta fu bloccata
dall’esterno con una sbarra. Per protesta, uno di loro diede fuoco ai
materassi. Così all’interno scoppiò un incendio, ma nessuno intervenne
per tempo ad aprire. Nel rogo perirono subito, bruciati vivi, tre
giovani tunisini. Altri due sarebbero morti pochi giorni dopo in
ospedale; il sesto avrebbe cessato di vivere dopo due mesi e mezzo di
agonia. La strage è rimasta impunita, così come i due precedenti omicidi
colposi.
Presidiati militarmente dalle forze dell’ordine,
spesso protetti da più ordini di sbarre (com’è nel caso di quello di
Ponte Galeria) così da apparire foschi e blindati più di un carcere, i
Cie sono amministrati, delle volte, con un’affettata parvenza di
rispetto dei diritti umani, dietro cui spesso si celano ogni genere di brutalità e sistemi di gestione alquanto opachi.
Vi dominano le più varie forme di arbitrio, maltrattamenti, precarie
condizioni igieniche, pestaggi delle forze dell’ordine, cui seguono
rivolte e atti di autolesionismo: ricordate le proteste “delle bocche cucite”?
Per non dire dei suicidi e tentativi di suicidio nonché delle morti per
carenza di cure mediche oppure per omissione di soccorso: così morì la
notte tra il 18 e il 19 marzo 2009 Salah Soudani nel Cie di Ponte
Galeria. Il loro carattere di eccezione permanente è
illustrato dal costante ricorso – più che in carcere – alla pratica di
somministrare agli internati, spesso a loro insaputa, psicofarmaci e
neurolettici.
Sappiamo bene quale sia l’aria che spira oggi. La
presidenza Trump, con le sue nuove “leggi razziali”, non farà che
legittimare l’Europa-fortezza e alimentare razzismo e islamofobia: il
recente attacco terroristico nella moschea di Quebec City ne rappresenta
il tragico salto di qualità. Eppure, perfino a noi, che da decenni
combattiamo contro i mulini a vento, fa una certa impressione constatare
che non una parola sia stata spesa dal Viminale a proposito di ciò che
potremmo cominciare a chiamare genocidio: nel 2016 sono state almeno
5.800 le vittime della tragica traversata verso l’Europa, equivalenti a
più del 77% dei morti di migrazione su scala planetaria.
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