In molti si stanno
chiedendo cosa sia Avaaz e che cosa ci stia dietro, perché le sue
petizioni on line, che hanno avuto spesso considerevole successo in
Italia, hanno suscitato anche parecchie perplessità. Corre voce, fra le
altre cose, che ci sia lo zampino di George Soros.
Poiché
le notizie disponibili in italiano su questa organizzazione non sono
abbondanti, ho condotto una piccola indagine in materia.
Avaaz
è nata nel gennaio 2007 dall’incontro di quattro organizzazioni. I due
soggetti promotori furono MoveOn e ResPublica. Il primo è un influente
gruppo di azione politica on line nato nel 1998 ad opera di Eli Pariser,
di orientamento liberal e filo-democratico, che è stato finanziato in
passato anche da Soros, ma che vive principalmente delle microdonazioni
dei suoi oltre 5 milioni di membri. Ma i principali responsabili della
nascita di Avaaz furono Ricken Patel, un canadese di ascendenza indiana
attivista di professione e di orientamento liberal, Tom Perriello, un
avvocato cattolico virginiano che è stato poi parlamentare democratico
nel 2009-2011 e ha votato a favore della continuazione della guerra in
Afghanistan, e Tom Pravda, un diplomatico di carriera britannico che è
stato anche consulente del Dipartimento di Stato americano. I tre
avevano fondato nel dicembre 2003 Res Publica,
un comitato di “professionisti del settore pubblico” dediti alla
promozione “del buon governo, della virtù civica e della democrazia
deliberativa”.
Ad essi si aggiunsero, oltre ad alcuni altri singoli individui, la Services Employees
International Union, piccolo sindacato americano filo-democratico, e
GetUp!, un’organizzazione nata in Australia sul modello di MoveOn ad
opera di David Madden.
Avaaz dichiara che dal 2009 ha
cessato di accettare donazioni da enti pubblici e imprese e che la sua
unica fonte di finanziamento sono i microcontributi degli aderenti e
simpatizzanti, che non possono superare i 5.000 dollari. E’ una buona
linea, visto che se la può permettere. Si direbbe che se c’è
un’influenza di Soros o di altri potenti, questa non ha la forma del
condizionamento finanziario. Naturalmente questo non basta per capire
“che cosa c’è dietro” o “cosa ci sta sotto”.
Avaaz
ha fondato il suo successo sulla precedente, decennale esperienza di
MoveOn in fatto di mobilitazione politica on line e su un modello
metodologico originale basato sul rifiuto di darsi una linea politica
rigida al di là del generico intento di lavorare per un mondo migliore;
sulla scelta di operare per singole campagne, selezionate, a detta dei
promotori, con un sistema di consultazione on line degli aderenti, che
sarebbero oggi oltre dieci milioni in tutto il mondo; sulla gestione
centralizzata delle campagne ad opera di un piccolo nucleo di vertice
che redige materialmente gli appelli.
Il
modello è molto efficiente e dotato di alto potenziale.
L’organizzazione ha di fatto un orientamento politico e soprattutto una
mentalità chiaramente riconoscibile, che è di ambiente liberal
nordamericano, qualcosa di vagamente simile a posizioni di
centro-sinistra in Italia.
Purtroppo
il meccanismo “democratico” di selezione degli obiettivi non garantisce
per nulla che le iniziative siano sempre lodevoli.
Negli
ultimi tempi Avaaz ha promosso diverse campagne altamente
condivisibili, come quella contro la legge bavaglio in Italia, quella
contro l’acquisizione di BSkyB da parte di Murdoch in Inghilterra,
quella in favore di Bradley Manning, il soldato autore del mega-leak di
Wikileaks e quella sul riconoscimento Onu dello stato palestinese.
Altre
iniziative sono state meno lodevoli. In luglio ho criticato duramente
la petizione contro il presidente sudanese al Bashir, che chiedeva al
Consiglio di Sicurezza un intervento deciso contro “questo mostro”,
senza minimamente curarsi di escludere il ricorso alle armi:
quell’appello era in pratica un invito a muovere guerra. Per fortuna è
rimasto senza seguito.
Ma
il caso più grave è stato l’appello lanciato in marzo per chiedere la
no-fly zone sulla Libia, cui è seguito come è noto, il terribile
intervento armato di cui si tira il tragico bilancio nel precedente post
di questo blog. Avaaz non si è pentita di quella iniziativa. Ancora
oggi, dopo le migliaia di morti, le distruzioni, i saccheggi, le pulizie
etniche, i terribili assedi di Sirte e di Bani Walid, continua a
proclamare sul suo sito, alla voce “Pace”, che “il massacro libico è
stato fermato” anche grazie all’aiuto del loro “milione di messaggi al
Consiglio di Sicurezza”. Purtroppo non è improbabile che quel milione di
firme abbia avuto una qualche influenza sulla decisione di Russia e
Cina di astenersi sulla risoluzione 1973. E questa è una responsabilità
molto grave dell’organizzazione, assai più che dei firmatari: i quali
certamente, in larga misura, non avevano proprio immaginato che cosa ne
sarebbe derivato.
Cosa
possiamo concludere? Prima di tutto che è bene che chi di noi ha
firmato qualcuna delle migliori petizioni di Avaaz non faccia poi
l’errore di fare cieco affidamento sul suo nome per firmare qualunque
cosa propongano. In secondo luogo, che non si faccia l’errore opposto,
cioè di bocciare qualunque appello solo perché proviene da Avaaz.
La
mentalità liberal americana è spesso generosa e creativa e ne possono
nascere iniziative eccellenti. Altre volte può risultare dannosa.