La forza
delle parole, la loro straordinaria capacità di esaltare la verità,
di liberarla dalla morsa oppressiva di poteri oscuri, di renderla
comprensibile a tutti, semplicemente di farla emergere e metterla a
nostra disposizione. È questo il messaggio che ancora una volta
Saviano ha dato all’opinione pubblica, nel corso della puntata
speciale di Che tempo che fa,
andata in onda mercoledì 25 marzo su Raitre ed a lui interamente
dedicata. Due ore di trasmissione, aperte da un monologo di circa 40
minuti, in cui lo scrittore napoletano, con l’ausilio di un
megaschermo, ha mostrato come la camorra, attraverso una serie di
giornali locali, usi il linguaggio per nascondersi e per indirizzare
l’opinione pubblica verso un pensiero comune che si trasforma
facilmente in complicità, connivenza, accettazione.
Una carrellata
di titoli comparsi sui quotidiani casertani, una sfilza di parole
improprie che descrivono quella che di fatto è una guerra come se
fosse una cosa normale, con l’aggravante di fornire ai lettori una
chiave di lettura “conformista”, che induca ad approvare il punto
di vista imposto dai boss. Vedendo scorrere sullo schermo quei
ritagli di giornale, si ha l’impressione che quei giornalisti (se
così si possono chiamare) abbiano scritto sotto la dettatura dei
capiclan, le cui dichiarazioni o lettere, tra l’altro, sono spesso
ospitate dagli stessi giornali. Un sistema di comunicazione in mano
alla camorra, con mezzi di informazione che sfacciatamente si
permettono di scrivere “Sindacalista giustiziato” o di definire
“infame” un collaboratore di giustizia.
Roberto Saviano spiega
benissimo ogni cosa, regalandoci una lezione di giornalismo e di
analisi sociologica del linguaggio basata sulla realtà dei fatti,
una realtà che fa arrossire, anche perché è rimasta nell’ombra e
nell’assoluto silenzio per anni. Dalle terre di camorra arrivano
storie di uomini che hanno combattuto e sono morti per affermare la
giustizia, semplicemente hanno deciso di non piegarsi, di non
svendere la propria dignità. E lo Stato e i mass media hanno
taciuto, consapevolmente e colpevolmente, per evitare di guardare in
faccia quella realtà, per evitare di dover intervenire, far
qualcosa, schierarsi contro la camorra e a fianco degli onesti.
Così,
Saviano ci racconta di don Peppino Diana, parroco ucciso perché con
le sue parole aveva sfidato la camorra, e di Salvatore Nuvoletta,
carabiniere di 20 anni ucciso mentre era per strada, disarmato. Già,
perché come ricorda Roberto, i camorristi sono “dei codardi, che
uccidono solo quando sei disarmato”. Poi, una volta eseguito il
delitto, comincia un altro delitto, ancora più grave, cioè quello
della diffamazione, del sospetto addossato alle vittime, in modo che
non diventino esempi di chi ha alzato la testa, in modo che non
possano essere considerati come degli eroi. Così hanno fatto con don
Diana, così con Salvatore Nuvoletta: li hanno diffamati, utilizzando
giornali locali conniventi, che hanno sbattuto in prima pagina le
tesi suggerite dai boss, facendo da subito scemare un possibile
interesse dei media nazionali.
Lo spiega chiaramente Saviano quando,
rivolgendosi al pubblico, a proposito di Nuvoletta, afferma: “Perché
non avete mai sentito questo nome? È un carabiniere di 20 anni. Non
lo avete mai sentito, perché quando la camorra uccide non lo fa con
le pallottole ma con la diffamazione”. Con questo metodo si
costruisce il silenzio, un silenzio terribile, colpevole, che ha
consentito di nascondere all’intero Paese il sangue di una guerra
terribile, che ha fatto migliaia di morti, che ha visto corpi
martoriati e volti sventrati dai proiettili giacere in mezzo alla
strada, attorniati da folle di curiosi assiepate dietro i nastri
biancorossi della polizia: nelle prime file di questo pubblico, come
Saviano ha mostrato con rabbia in alcune foto, c’erano sempre tanti
bambini, spettatori puntuali di uno spettacolo macabro e
sconvolgente. Proprio come avviene nelle tante zone di guerra
sperdute nel mondo, in cui il volto serio dei bambini davanti ad un
teatro di morte sconquassa le coscienze di chi ancora è capace di
indignarsi e di chiedere pace.
Secondo lo scrittore napoletano,
dunque, i mass media sono i primi responsabili di tale silenzio: “In
media si ammazzano una o due persone al giorno, spesso tre, e la
cronaca nazionale ignora tutto questo che viene lasciato a pochi
cronisti coraggiosi. Tutto questo vive in un silenzio colpevole
perché non permette al Paese di capire ciò che sta succedendo”.
Ma non solo. Anche la politica, di ogni colore, ha la sua grande
responsabilità: “Nell’ultima campagna elettorale, da qualsiasi
parte, non si è parlato di mafia perché c’era l’impressione che
la gran parte della gente non fosse interessata.
La politica è molto
complicata e la cosa più grave che può fare è far scendere il
silenzio su queste vicende così come la cosa più grave che possano
fare gli elettori è il silenzio su queste storie. La politica ha
paura di affrontare l’argomento camorra. Bisogna capire che la
legalità non è il risultato, ma deve essere la premessa dell’azione
politica”. Anche chi combatte ogni giorno con la forza della
parola, come fa Roberto, deve scontrarsi con le accuse, le critiche
irriguardose, le invidie, che si aggiungono alle minacce e ai
pericoli che ti costringono ad una vita blindata, chiuso in una
stanza, solo, privo dell’aria che ti viene tolta solo perché hai
detto la verità, perché hai fatto il tuo dovere di cittadino, di
giornalista, di scrittore.
Alle accuse di essersi arricchito grazie
alle sciagure della sua terra, di essere un’operazione mediatica e
perfino a quelle assurde di plagio, fatte da un editore locale sotto
processo per estorsione, Saviano risponde così: “Vivo
grazie ai miei lettori e i soldi che ricevo sono
quelli che mi danno loro comprando il mio libro o
leggendo i miei articoli sui giornali per cui scrivo […] Io voglio
essere un’operazione mediatica, voglio parlare al più alto numero
di persone. Voglio le prime pagine, voglio serate come questa perché
voglio raggiungere più persone possibili. Per quanto riguarda
l’accusa di plagio ricordo le parole di Enzo (Biagi ndr), il quale,
quando mi intervistò, mi disse ‘sei veramente arrivato quando
fanno un falso del tuo libro e ti accusano di plagio’. Adesso io le
ho tutte e due”.
Roberto Saviano, che ha ricevuto gli elogi e
l’incoraggiamento di grandi della letteratura mondiale come Metha,
Auster e Grossman, ha poi ringraziato i carabinieri che lo proteggono
da tre anni, la gente che lo ha sostenuto e lo sostiene scrivendogli
sempre, a tutte le ore, e anche chi lo ha criticato ma in maniera
rispettosa. Poi, nel finale, con rabbia, citando John Kennedy, ha
detto di “non dimenticare” il male subito da coloro che hanno
lasciato solo lui e la sua famiglia, tutti quegli amici infastiditi
dalla sua scelta, che lo hanno trattato come se lui avesse fatto
qualcosa di male, coloro che lo hanno accusato senza ragione e senza
rispetto, quelli che gli impediscono di vivere una vita normale. Già
perché Roberto vive una vita blindata, difficile da invidiare, una
vita che conosce l’aria e i colori solo quando egli va a parlare in
pubblico o in tv, ma che un momento dopo ritorna ad essere blindata,
scortata, solitaria.
Ma Roberto ha scelto una strada, lo ha fatto con
coraggio, animato dalla convinzione che la parola è più forte di
tutto, delle armi, delle guerre, delle organizzazioni criminali. E
nella storia ci sono tanti esempi, da Gandhi a Martin Luther King, da
Rushdie a don Puglisi. E le parole fanno paura. Lo spiega bene
Roberto, durante l’intervista concessa a Fabio Fazio: “Come è
possibile che organizzazioni così potenti abbiano paura di me o di
un libro? Io lo ripeto: loro non hanno paura di me, hanno paura di
tanti occhi che hanno letto queste parole, del fatto che tante
lingue, tante braccia…tante discussioni avvengano su di loro. È il
lettore la cosa più pericolosa che esiste per queste organizzazioni.
Sono le prime pagine che i lettori impongono. Se chi racconta non
avesse lettori non avrebbe le prime pagine. Quindi, in realtà, la
loro paura è la paura di questo insieme”.
In conclusione, Saviano descrive, invece, qual è la sua paura: “Io sono terrorizzato dalla delegittimazione. Io ho paura che saranno tanti i tentativi di mettermi in ginocchio. Io mi aspetto il peggio, lo dico alle persone che mi vogliono bene. La mia paura è quella di continuare a stare in questa situazione anche di solitudine senza fine e sono grato a chi, in questi ultimi mesi, in questi anni, è riuscito a entrare nella mia vita non facendomi sentire in colpa per quello che sto subendo”. Ecco perché bisogna continuare a dare a Roberto il nostro sostegno, nella consapevolezza che la nostra continua solidarietà gli è di grande aiuto.