Nessun tabù

di Francesco Baicchi - 25/02/2012
L'articolo 18 non è un tabù. Nessuna delle norme che gli uomini e le donne si sono dati nel corso dei secoli per regolare la propria convivenza lo è. E' anzi dalla loro evoluzione che siamo soliti misurare quella che potremmo definire 'civiltà'.

Ma i cambiamenti non sempre sono andati nel senso della storia, cioè hanno contributo alla crescita di società più giuste e civili: ci sono stati momenti di arretramento e di involuzione.

Chiediamoci allora se e come l'articolo 18 può/deve essere modificato e perché.

Sostanzialmente si tratta di una norma che vuole impedire licenziamenti di singoli dipendenti a discrezione del datore di lavoro. Cioè motivati da ragioni politiche, razziali, o semplicemente personali (il rifiuto di avances sessuali, per esempio).

E' facile ricordare che nel periodo fascista lo Stato stesso operò licenziamenti in base a motivazioni razziali e politiche, e che è ora possibile affermare che Marchionne sta utilizzando lo stesso parametro di valutazione nei confronti degli iscritti alla FIOM.

Ma il divieto di discriminazione è uno dei Principi Fondamentali della nostra Costituzione, forse il più grande, espresso mirabilmente (cioè senza possibilità di fraintendimento e in modo assolutamente comprensibile) nell'articolo 3: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.”.

Il secondo comma dello stesso articolo impone anzi inequivocabilmente alla Repubblica l'obbligo di “rimuovere gli ostacoli “ che potrebbero limitarne l'attuazione.

Da questo punto di vista l'articolo 18 si limita quindi a dare attuazione al dettato costituzionale.

L'onere per l'impresa di motivare il licenziamento (cioè di fornire una ragione oggettiva e lecita) è indispensabile perché il dipendente, per definizione, si trova in una posizione di soggezione e difficilmente è in grado di dimostrare, ad esempio, che la vera motivazione è l'essersi rifiutato di soggiacere a una imposizione illecita. Basta pensare a quanto possa essere difficile ottenere testimonianze da altri dipendenti a loro volta ricattabili.

Marcegaglia e alcune belle menti anche del centro-sinistra sostengono che tale obbligo ostacola l'attività di impresa e, addirittura, scoraggia gli investitori stranieri. In presenza di un mercato del lavoro che vede oltre il 75% delle nuove assunzioni effettuate con contratti a termine o altre forme di precariato mi sembrano argomentazioni risibili.

Penso che le imprese italiane siano molto più danneggiate da dirigenti e amministratori disonesti, incapaci e/o troppo pagati, nei confronti dei quali però raramente ho visto la proprietà delle imprese agire per vie legali. Specialmente nelle società di capitali che hanno un micro-azionariato diffuso, al quale in Italia è persino possibile fornire impunemente bilanci falsi.

E che gli investitori stranieri siano più spaventati dalla mancanza nel nostro Paese di un 'sistema' di certezze in merito ai pagamenti, al rispetto delle clausole contrattuali, alla applicazione di pene severe per il fallimento e la bancarotta, alla stabilità normativa indispensabile per la programmazione di lungo termine e, soprattutto, dai condizionamenti derivanti dalla corruzione e dalla criminalità organizzata.

La nostra economia ha sicuramente necessità di una scossa per recuperare vitalità e competitività; se questo è l'obiettivo dell'attuale governo, della eventuale utilità di modificare l'art. 18 sarebbe lecito parlare solo nel quadro di una oggettiva valutazione del peso di tutti questi fattori.

Altrimenti invece che a un provvedimento di rilancio dell'economia ci troviamo di fronte solo all'ennesimo tentativo di cancellare uno dei pilastri della nostra democrazia.
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