C’è un ricordo che mi porto dentro sin da bambino, come una cicatrice, un segno profondo e irregolare, inciso con cruda prepotenza sulla pelle liscia e candida di un’infanzia tranquilla. Le notti in cui il sonno o una normale serata in famiglia venivano interrotti da qualcosa di estraneo, innaturale, ma brutalmente “normale”, quotidiano, riconoscibile. La mia città, incantevole anfora riempita di paesaggi, storia, cultura, monumenti, insenature, fondali, terra di provincia dal respiro eterno, era il teatro notturno di boati improvvisi, vetrate impazzite, silenzio surreale e, subito dopo, sirene nevrotiche e incessanti. Non c’era la guerra, al tempo di me bambino, ma c’era un’oppressore violento, una specie di mostro che, vorace, inghiottiva la vita e il lavoro di un’intera cittadinanza. Mafia: così la sentivo chiamare da sempre. Racket: questo il nome nuovo che imparavo durante quelle notti.
In realtà, una guerra c’era e faceva anche i suoi morti, erano più o meno regolamenti di conti fra affiliati, tra clan differenti che si contendevano il dominio del territorio. Sparavano ovunque e lasciavano sangue e clamore. Silenzio e orrore. Anche di giorno. Sotto la luna, invece, i proiettili si congedavano, consegnando il testimone al tritolo. Una, due bombe a sera. Ogni sera. Negozi di tutti i tipi devastati. Nasceva terrore di fronte all’idea che ognuno di noi potesse passare da lì nel momento esatto dello scoppio ed esserne investito. La mafia comandava, stabiliva il prezzo del proprio dominio, la “mora” da versare per il mancato o tardato pagamento: una mora che era pagata in calcinacci e vetrate, in fiamme e cenere. Poi c’è stata la reazione, poi ci sono stati cittadini e associazioni che hanno alzato la testa, quindi le istituzioni che hanno provveduto a “bonificare” il territorio e a farci respirare un po’, perché le mani dei clan sul collo del nostro futuro le sentivamo eccome ed hanno lasciato i segni.
Spiegatelo a Grillo che la mafia strozza, stringe, preme le vene e la giugulare di una comunità che impiega numerose energie nel trovare le forze per afferrare le mani che la soffocano e riprendere un po’ di aria. Ditegli anche che lo fa da sempre e lo fa in tanti modi. Uccide, spara, squarta, strozza, tortura, mutila, mura con la calce, “veste” con il cemento fresco, scioglie nell’acido, getta nei dirupi, fa saltare in aria strade, palazzi, esseri umani di cui rimangono solo brandelli. Lo fa impedendo lo sviluppo di questo Paese, attraverso le complicità, attraverso il controllo dell’economia di interi territori, attraverso quel sistema chiamato “pizzo”, che un comico stralunato minimizza, come fosse una consuetudine indolore e pertanto ormai istituzionalizzata.
Lo vada a spiegare a chi vive sotto scorta per aver difeso il proprio lavoro e i propri sacrifici, lo dica a Pina Maisano Grassi, che ha visto suo marito Libero riverso per terra, crivellato dal piombo di chi ha strozzato la sua volontà di non rinunciare alla propria dignità di uomo onesto e libero. Un imprenditore che voleva lavorare senza dover dare una parte dei propri guadagni alla criminalità organizzata. Lo vada a spiegare ai familiari di tutte quelle donne e quegli uomini che non hanno mai indietreggiato e che non indietreggiano di un passo pur di liberare tutti noi da quel cappio pungente con cui la mafia ci stringe il collo. Le parole di Grillo sono inaccettabili, offensive, rozze come l’alone di predicatore che questo comico presuntuoso si è costruito attorno.
La rabbia è tanta, soprattutto da parte di coloro per cui quelle cinque lettere (m-a-f-i-a) non sono gli elementi di una parola stampata su una pagina di dizionario, ma rappresentano volti, voci, atteggiamenti, ferite, dolori incontrati nella vita concreta, nel quotidiano. Un quotidiano che non è fatto di pulpiti privilegiati e di comizi da avanspettacolo, ma di lotte, sudore, paure da superare, sacrifici, esistenze blindate. E questi lottatori non chiedono il dissolvimento dei meccanismi democratici su cui si regge lo Stato, perché lo Stato sono essi stessi, come cittadini semplici, come commercianti, come magistrati, giornalisti, scrittori, sindacalisti, sindaci e politici. Lo Stato siamo noi e noi abbiamo l’obbligo di eliminarne le devianze.
Lo Stato è gente come Rosario Crocetta, che la mafia l’ha combattuta a Gela, in prima persona, e che adesso continua a combatterla in Europa, insieme a donne come Sonia Alfano e Rita Borsellino, esempi di impegno politico al servizio della legalità. Lo Stato è Pio La Torre, che ha sacrificato la propria vita per dare a questo Paese una legge fondamentale nella lotta al crimine organizzato. Fateli a Grillo questi nomi, ma soprattutto fate capire ai suoi seguaci, così attivi ed impegnati nei territori, dove spesso conducono un lavoro egregio di controllo, vigilanza, denuncia, che l’idolatria nei confronti del proprio leader può distruggere tutto.
Lo spazio per la critica e per la condanna è un elemento essenziale di libertà. Lasciate a casa i complottismi, le difese a oltranza, i soliti discorsi sulle cattive interpretazioni e sulle “frasi estrapolate dal contesto”, perché se una stronzata viene detta essa rimane tale indipendentemente dal contesto. Perché ci sono parole troppo pericolose che possono produrre sottoculture letali; soprattutto ci sono parole che sono lame incandescenti che bruciano la pelle e il cuore di chi, con dolore e rabbia di vita vissuta, ne ha riconosciuto immediatamente l’assurdità.
Spiegatelo a Grillo che la mafia strozza, stringe, preme le vene e la giugulare di una comunità che impiega numerose energie nel trovare le forze per afferrare le mani che la soffocano e riprendere un po’ di aria. Ditegli anche che lo fa da sempre e lo fa in tanti modi. Uccide, spara, squarta, strozza, tortura, mutila, mura con la calce, “veste” con il cemento fresco, scioglie nell’acido, getta nei dirupi, fa saltare in aria strade, palazzi, esseri umani di cui rimangono solo brandelli.