PIERRE CARNITI: Pomigliano un accordo da non firmare

di Loris Campetti il manifesto - 21/06/2010
COLLOQUIO CON L'EX SEGRETARIO DELLA CISL PIERRE CARNITI

Tutti commentano le vicende di Pomigliano e lanciano anatemi contro gli operai fannulloni. «Gente che non ha mai visto una fabbrica, o se l’ha vista, magari perché è di sua proprietà, non sa come lavora un operaio alla linea di  montaggio. Io li manderei un anno a Pomigliano, alla catena». Sarebbe una bella rieducazione. Pierre Carniti non fa nomi, ma dalle tipologie che descrive ci permettiamo di interpretare il suo pensiero, assumendoci la responsabilità di eventuali errori: Veltroni, Sacconi, Marcegaglia... Questa non è un’intervista al prestigioso ex segretario della Cisl ma un colloquio, per noi un aiuto a leggere meglio nella forzatura messa in atto dall’Ad della Fiat, Sergio Marchionne.
Carniti non giudica chi ha preso il suo posto, né chi dirige i sindacati in un momento difficile come questo. È un fatto di stile. Dice però con franchezza quel che pensa. E alla domanda che gli rivolgiamo al termine del colloquio: tu avresti firmato quel testo scritto dalla Fiat?, risponde che «non è un accordo, né un contratto, semmai un protocollo imposto dall’azienda, prendere in toto o lasciare. Nessun sindacalista avrebbe dovuto firmarlo. Semmai avrei detto alla
Fiat di chiedere direttamente ai lavoratori. Magari dicendo loro che la situazione è straordinaria, servono sacrifici, e ascoltare le loro risposte. Ma niente firma sindacale, né come sindacato avrei detto ai lavoratori cosa votare. In tanti anni di lavoro sindacale mi è capitato di fare accordi buoni e anche cattivi. Nel 1966, per esempio, firmai un contratto nazionale dei metalmeccanici che sembrava quello precedente, neanche il totale recupero dell’inflazione riuscimmo a strappare. La situazione era quel che era, ma almeno si contrattava. La procedura imposta oggi dalla Fiat per lo stabilimento di Pomigliano è veramente singolare, senza precedenti nel dopoguerra. Certo nel Ventennio succedeva
anche di peggio».
Il punto di partenza di Carniti è che la decisione di Marchionne di investire un po’ di soldi a Pomigliano è importante ma anche dovuta, perché «dopo aver annunciato la morte di Termini Imerese non poteva certo dire chiudo anche Pomigliano», con tutti i soldi presi dallo stato con la rottamazione. La Fiat si internazionalizza, il cuore produttivo si sposta altrove, «ma se abbatte la produzione in Italia se lo sogna il 30% di mercato casalingo». Seguendo la filosofia prevalente, Marchionne approfitta della crisi per liberarsi dei contratti nazionali. Il primo passo in questa direzione l'ha fatto il governo, «incoraggiando le imprese a regolare i rapporti di lavoro in sede aziendale», defiscalizzando gli aumenti contrattuali di secondo livello. Così si svuota il contratto nazionale. Mi sarei aspettato una reazione sindacale forte».
Si può discutere tutto, anche della validità, oggi, del contratto nazionale di lavoro. «Io vorrei che qualcuno mi convincesse che esistono alternative per difendere con altri sistemi coesione, solidarietà generale, eguaglianza di diritti. Io non le vedo, forse sono troppo vecchio e mi torna in mente una frase del Manzoni: non sempre quel che viene dopo è progresso. Su questo – aggiunge Carniti - dovrebbero confrontarsi anche i sindacati, invece di beccarsi in  concorrenza tra loro su chi è più realista e chi più radicale». Invece, ogni decisione o cambiamento del sistema di regole avviene altrove, con un governo
segnato «dai leghisti che sognano le gabbie salariali. Ricordo che in paesi importanti e che crescono più di noi, come la Germania, il contratto nazionale ha un ruolo importantissimo».
Il punto, dunque, non è se Pomigliano debba chiudere o no, «la Fiat che per decenni ha vissuto con i finanziamenti pubblici non può permetterselo». La Fiat strumentalizza per giustificare «un cammino eccentrico. Usa esempi singolari, si lamenta perché dei lavoratori si mettono in malattia durante gli scioperi quando quei comportamenti fanno il gioco della Fiat che può così negare la riuscita degli scioperi. Dica la verità, il Lingotto, riconosca gli scioperi invece di tirare sui numeri. Oppure protesta perché in troppi, a ogni elezione, si assentano per fare i rappresentanti di lista. Ma che c’entrano i sindacati e i lavoratori? Esiste una legge dello stato, semmai chiedano alla politica di modificarla».
Sulla presunta incostituzionalità di alcune norme contenute nel diktat Fiat Carniti non si pronuncia, «non conosco abbastanza il testo ma quel che più mi preoccupa non è questo: se ci sono elementi che violano la Costituzione si individueranno le sedi opportune per invalidarle. E comunque Marchionne si illude, perché un sì dei lavoratori - persino un impegno a non ricorrere allo sciopero, o a non dire ahi prima di tre giorni quando ti schiacci un dito con il martello - estorto con il ricatto, è una vittoria di Pirro. Se si sopraffà l’interlocutore questo prima o poi esplode, non si governa con le sopraffazioni. Non c'è stata alcuna contrattazione sul testo, la Fiat ha portato un pacco non negoziabile, perciò non ha senso apporvi una firma sindacale». Meglio un confronto, anche conflittuale, le imposizioni producono solo rivolte. «Dovrebbe
sapere Marchionne, abituato a trattare con i sindacati americani, che negli Usa, negli anni sindacalmente difficili, gli operai dell’auto mettevano i bulloni nei motori».
Alla domanda «ti aspettavi qualcosa di meglio da Marchionne?», Carniti precisa che il dirigente Fiat opera in condizioni difficili, con l’auto che batte in testa in tutto il mondo, una competizione dura e una capacità produttiva superiore alla domanda. Poi, aggiunge, è abituato negli Usa dove il sindacato dell’auto è uno e non sei o sette. «Immagino che abbia dato ascolto a dei consiglieri che spiegano come la strada sia quella della rieducazione forzata dei lavoratori per battere l’anarchismo. Avrà ascoltato un po’ di colleghi confindustriali che pretendono la cancellazione di qualsiasi forma di contrattazione collettiva», come la capa dei giovani imprenditori, «i figli dei papà confindustriali». Così Marchionne, incoraggiato dal contesto, si è gettato lancia in resta contro il contratto nazionale. Ma al suo posto, lo ripeto, non starei tranquillo del risultato».

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