Piazza Magenta, a Capalbio: non la piazza di Montecitorio, o quella del Quirinale. È affacciandosi su quella minuscola piazza della cittadina maremmana che si intuisce cosa è successo alla politica italiana. Perché qui lo spazio pubblico è letteralmente sparito, inghiottito dai tavoli e dagli ombrelloni di un ristorante che ha completamente privatizzato la piazza, espellendo i cittadini e accogliendo solo clienti e consumatori. Come ha scritto il sociologo e storico statunitense Christopher Lasch, il problema non è più di decoro urbano, ma appunto di politica e democrazia: quando il mercato stende il suo ferreo controllo “sulle attrattive cittadine, sulla convivialità, sulla conversazione … in pratica su quasi tutto ciò che rende la vita degna di essere vissuta. Quando il mercato esercita il diritto di prelazione su qualsiasi spazio pubblico, e la socializzazione deve ‘ritirarsi’ nei club privati, la gente corre il rischio di perdere la capacità di divertirsi e di autogovernarsi”. Ecco il rapporto che c’è tra i tavolini di un ristorante e la politica, cioè l’arte di costruire la polis, la città e il suo autogoverno: chi prima frequentava quella piazza, sentendola sua, ora deve smettere di farlo. E piano piano abituarsi all’idea che quella cosa di tutti, pubblica appunto, ora sia solo di qualcuno: immaginiamo una città senza piazze, in cui tutte le piazze siano così piene di dehors e tavoli da non poter passeggiare o manifestare. Venezia e Firenze non sono lontanissime da questa immagine distopica.
Nel caso di Capalbio, questa ‘ristorantizzazione’ della piazza più bella e popolare del paese (già teatro del Premio Capalbio e del Capalbio Short Film Festival) è stata resa possibile dalla ennesima proroga della legislazione eccezionale del tempo del Covid: una misura grottesca, che mostra l’asservimento dei camerati di governo agli interessi delle corporazioni e del mercato – altro che difesa del patrimonio culturale della famosa nazione! Se le cosiddette ‘città d’arte’ (espressione in sé malata, perché non storica o culturale, ma solo commerciale: e sincera solo nel sottintendere che sono città che non appartengono più ai loro cittadini) sono trasformate in grandi mense turistiche a cielo aperto lo si deve proprio a questa proroga della proroga della proroga che regala ciò che è di tutti solo ad alcuni. Nel caso di Capalbio dicono ci sia dell’altro, e cioè il sostegno che il ristoratore in questione offrirebbe al sindaco, in tutta una corrispondenza d’amorosi sensi. Sia come sia, il risultato è sconcertante, al punto che chi arriva per la prima volta oggi nella piazza, pensa di trovarsi in un cortile privato e non nella più ampia, pubblica piazza di questo castello murato medioevale.
In questi casi, la risposta degli amministratori locali è sempre la stessa: ‘abbiamo animato la piazza’, ‘abbiamo riempito un vuoto’. È una risposta che spesso è in buona fede, e che proprio allora tocca corde più profonde di quanto non si possa pensare. Perché la coazione a riempire di ‘cose’, ‘eventi’, ‘servizi’ le piazze ha a che fare con quello stesso horror vacui che impedisce di restare in silenzio a pensare senza mettersi a guardare il telefono, o a procurarsi una qualunque altra ‘distrazione’. È la paura di uno spazio, e di un tempo, in cui sostare: in cui uscire dal flusso della produttività e del consumo forzati, uscire dai ruoli sociali (produttori, consumatori, erogatori o utilizzatori di servizi…). In cui correre il rischio di pensare: perfino quello di guardarsi dentro, mentre lo sguardo si perde sul fuori. Qualcosa che ricorda ciò che accade nell’Infinito di Leopardi, dove sedendo di fronte a una siepe e a un paesaggio, la mente vaga superando le barriere del tempo, appunto finito, della nostra vita. Troppo lontani dal problema di un ristorante che si mangia una piazza a Capalbio? No, non lo credo. Le piazze storiche italiane sono come una diastole della concitazione delle vie. Sono vuoti attentamente calcolati: che nascevano per essere riempiti solo temporaneamente da ‘attività’ (la predica, il mercato…) ma che rappresentavano un’apertura di spazio, e dunque di senso, anche per chi viveva in piccole case senza vista e senza respiro. Sono per l’appunto il respiro delle città. Pensiamo alla sensazione che proviamo sbucando in Piazza del Campo a Siena, o in Piazza Plebiscito a Napoli, e così via: come se i polmoni si dilatassero, come se la città ci aprisse il suo cuore. Come se i nostri limiti (di censo, di corpo, di tempo) fossero superabili attraverso un respiro collettivo. In altre parole, le piazze ci hanno sempre aiutato a diventare comunità (attraverso i riti civili e sociali) e a diventare umani, attraverso il loro non servire a nulla se non al respiro degli umani che le frequentano. Come nelle chiese, lo ‘spreco’ di spazio che le contraddistingue, fa da contrappunto all’utilizzo spasmodico di ogni centimetro a fini commerciali. Per questo le piazze devono rimanere libere: per mantenerci liberi. Perfino Piazza Magenta a Capalbio, sì.