Città ricchezza collettiva - Per un'altra economia territoriale

di Paolo Cacciari - Granello di Sabbia n. 40 di Maggio - Giugno 2019 - 06/07/2019
iIprocessi globali di urbanizzazione selvaggia hanno portato a livello mondiale il 50% della popolazione ad abitare nel 3% della superficie terrestre

Sappiamo di chi sono le nuove mani che si sono impadronite delle città. Le corporation globali degli investitori finanziari. Vorrei segnalare (per riuscire a replicare ovunque) una bella inchiesta del collettivo “Per un’altra città” di Firenze sulla proprietà immobiliare a Firenze.

Sappiamo anche come è avvenuta l’espropriazione del diritto degli abitanti a decidere sulle scelte d’uso delle loro città. Sono noti i processi globali di urbanizzazione selvaggia che hanno portato a livello mondiale il 50% della popolazione ad abitare nel 3% della superficie terrestre. La megapolizzazione dell’inurbamento  (leggi la serie di articoli di Ilaria Agostini, Dal villaggio a megalopoli, www.perunaltracitta.org/2019) ha comportato il capovolgimento di quella che una volta nelle facoltà di urbanistica ci insegnavano essere la “funzione civilizzatrice” della città moderna pre-industriale. Da strumento di inclusione e di progresso umano ad aggregazione informe e alienante.

Il nostro maestro di geografia sociale, Eugenio Turri, descrive La Megalopoli padana (Marsilio 2001) come un “fenomeno canceroso”, “una degradazione della biosfera”, “una sterminata periferia senza forma e senza sentimento” che ha inghiottito e svuotato di significati le specificità dei luoghi e gli insediamenti storici. Potremmo dire di vivere in una non-città di tanti non-luoghi. Francesco Vallerani, anche lui nostra guida alla lettura del territorio, professore di geografia umana a Cà Foscari, descrive come a questo tipo di insediamenti corrisponda una “geografia dell’angoscia”, una antropologia degradata, spaesata, sradicata, atomizzata (Il grigio oltre le siepi, Nuovadimensione, 2005). Il nostro amico Marco Revelli afferma che “la nuova metropoli è senza società, a-sociale, inabitabile, un vuoto di relazioni” (Leonia, la città che si butta via, in “Carta ecc.”, n.1/2005).

Questo processo di inurbamento caotico, di spossessamento, gentrificazione e rigerarchizzazione delle funzioni urbane è il risultato del doppio passo del capitalismo postfordista. A livello micro è la conseguenza del dispiegarsi molecolare del “capitalismo reticolare” e “popolare” che si è insediato in ogni anfratto del territorio con le sue villette e i suoi capannoni. A livello macro la globalizzazione e la ripartizione dei flussi economici e dei business strategici ha ridisegnato i nodi e i corridoi transnazionali. In questo contesto l’industria del turismo è diventata uno dei sistemi più efficaci di “messa a valore” dei territori (estrazione di valore), espropriazione degli abitanti (nuove enclousures, recinzioni e privatizzazione degli spazi pubblici) e ri-concentrazione degli utili nelle mani delle company localizzate in qualche capitale della finanza. (Ad esempio la Croazia ha il 60% del Pil nazionale dovuto al turismo).

Ma – è questa la mia tesi – l’obiettivo più profondo e grave del saccheggio in corso del territorio inteso come patrimonio collettivo (vedi Alberto Magnaghi, Il territorio come bene comune, Firenze University Press, 2012) non è banalmente quello di “fare cassa”, di mettere a reddito  i demani pubblici, nemmeno quello di creare e regalare enormi rendite urbane e finanziarie ai nuovi padroni delle città, ma è distruggere gli spazi pubblici di condivisione e aggregazione degli abitanti. Sfibrare il tessuto comunitario. Desertificare le relazioni sociali e umane tra le persone insediate. Individualizzare la società. Esattamente: realizzare il progetto della signora Thatcher: “La società non esiste, esistono solo gli individui”.

Gli effetti disastrosi  dello “sviluppo” economico sul territorio (inquinamenti, perdita di biodiversità, rischi idrogeologici, congestione, spopolamento della aree interne …) non sono “effetti collaterali indesiderati”. Sono esattamente l’obiettivo principale dell’attacco alla città e in generale ai luoghi dell’abitare: renderli socialmente invivibili (degrado) o inaccessibili (gentrificazione), impedire che le persone possano stare assieme gratuitamente. Disabilitare i luoghi della socializzazione, dello scambio gratuito, del dono. I luoghi comunitari fisici.

E’ un progetto antropologico, politico, prima che economico. I psichiatri sociali ci dicono che il disturbo paranoide della personalità è caratterizzato da una tendenza ingiustificata ad interpretare le azioni della altre persone come minacciose e malevole. Ci trovate qualche cosa di familiare nell’Italia - e non solo - di oggi?

La domanda quindi è: come è possibile contrastare, contenere, almeno mitigare fenomeni così profondi, travolgenti, aggressivi? La mia tesi è che non sia sufficiente pensare ad una loro “regolamentazione” per via amministrativa. Non basta ipotizzare politiche pubbliche un po’ più responsabili e ragionevoli. Sarebbe necessario un vero “salto di paradigma”. Non lo diciamo solo noi, vecchi uomini e donne  impenitenti della “sinistra” più o meno radicale, antagonista, rivoluzionaria… Ormai sono molti i “pentiti” che vengono dalle file riformiste, socialdemocratiche, keynesiane che pensano sia necessario imboccare una qualche via di fuoriuscita dal capitalismo,  che ipotizzano un qualche tipo di società post-capitalista. Proprio ieri leggevo l’ex ministro alla Coesione sociale del governo Letta, Fabrizio Barca (“Micromega” online 4/4 2019): “Si deve ricominciare ad incidere sui meccanismi di formazione della ricchezza”. Appunto.

La  proposta territorialista (sostenuta da studiosi e attivisti che fanno riferimento ai modelli teorici e metodologici del neo-municipalismo vedi:  http://www.societadeiterritorialisti.it/ e la rivista Scienze del territorio) parte dall’idea che non sia sufficiente cercare di contrastare l’aggressione predatoria al territorio e alle città cercando di usare (solo) gli strumenti normativi e regolamentari della pianificazione urbanistica ed edilizia. Stando a noi, alle “città d’arte”, è difficile pensare di riuscire a governare i flussi turistici (anche ammesso che lo si voglia davvero fare) con le prenotazioni, i ticket, i nuovi terminal, ecc. O contenere tramite i regolamenti edilizi i cambi di destinazione d’uso degli immobili. La turisticizzazione della città (208 milioni di turisti stranieri in Italia nel 2018, di cui 26 a Venezia)  va fermata solo riuscendo ad immaginare (e a far condividere) nuovi modelli socio-economici-territoriali autocentrati sui bisogni degli abitanti e auto-sostenibili, capaci di generare ricchezza sociale, valori d’uso condivisi e benessere collettivo. In alternativa all’arricchimento di stampo privatistico e speculativo. In pratica si tratta di riuscire a prospettare - a progettare collettivamente – un diverso modo di produrre, scambiare beni e servizi, fruire, vivere nelle città riappropriandoci e mettendo a frutto in forme durevoli e sostenibili il patrimonio territoriale  esistente, insediativo, abitativo, paesaggistico, naturale, culturale … intendendolo come “bene comune”. Come patrimonio ereditato dalle generazioni che ci hanno preceduto e dono della natura gratuitamente concessoci. Quindi, da preservare, rigenerare e usufruire equamente tra tutti gli abitanti. In concreto si tratta di riuscire a dimostrare anche per le città ciò che Elinor Ostrom ebbe già provato per le commons-pool resources, per i beni naturali. E cioè che gli abitanti insediati in un luogo possono ricavare maggiori benefici e migliori condizioni di vita dall’uso condiviso (non privatistico e nemmeno collettivista-statalista) del patrimonio urbano.

Si tratta di una lotta squisitamente di potere, cioè politica, su chi decide quali risorse comuni mettere a valore, con quali modalità e a favore di chi. Si tratta di riuscire a dimostrare  che i flussi economici (anche quelli monetari) che vengono nell’attuale sistema economico estratti  lungo la catena di valorizzazione dei beni e dei servizi prodotti e venduti nella città non arricchiscono, né migliorano la vita degli abitanti, nemmeno ricapitalizzano il bene sottostante, ma fluiscono altrove e accelerano l’entropia del sistema urbano. Pensiamo ai redditi immobiliari da compravendite, che molto spesso sono solo “tesaurizzazioni” di surplus monetari di società di capitali, come si fa un quadro di valore da tenere nel cavò di una banca. Pensiamo ai redditi da affittanze intermediate da agenzie su piattaforme planetarie. Pensiamo ai redditi da attività commerciali gestite da grandi catene organizzate. Pensiamo ai redditi da sfruttamento dell’immagine dei luoghi – vero costrutto del marketing pubblicitario… Quali sono le effettive ricadute sul territorio dell’attuale industria turistica? Qualcuno sa quanto spendono di assicurazione per danni le compagnie delle meganavi da crociera per entrare in bacino di San Marco? Sapremmo finalmente quanto vale sul mercato Venezia!

I riferimenti storico-culturali dell’approccio territorialista ai beni comuni sono molti. I commons, gli antichi usi civici consuetudinari delle proprietà collettive delle terre (le Regole cadorine, le Vicinìe friulane, le Università agrarie emiliane … ora tutte ricomprese nei  “domini collettivi”, secondo la definizione della nuova legge n.167 del 2017. Le “comunità concrete” di Adriano Olivetti. I filoni dell’economia “circolare”, “civile”, ecosostenibile oggi molto di moda grazie alle normative sulla Responsabilità sociale ed ambientale cui si sottopongono le imprese e le direttive europee a favore del Community-led Development. Pensiamo soprattutto alla galassia delle microesperienze dell’Economia solidale trasformativa: Gas, Comunità di sostegno all’agricoltura, co-housing, co-working, riuso, riciclo, bioedilizia, energie rinnovabili, commercio ed artigianato di prossimità, Fab-Lab, luoghi di lavoro condivisi per free-lance dell’economia digiatle che usano le open-source tecnology, gli strumenti di scambio non monetari all’interno di circuiti locali, monete locali fiscali e molto altro ancora.

Perché secondo me tutte queste cose sono molto importanti, sono la “politica prima” di cui parlano le ecofemministe? Riflettiamo banalmente su qual è la differenza tra un mercato rionale e uno shopping mall, tra una bottega equo-solidale e un negozio in franchising, tra un gruppo di acquisto e un acquisto su Amazon, tra un Circuito cinema (come quello che il sindaco vorrebbe smantellare a Venezia) e una multisala, tra un campetto sportivo all’aperto e una palestra a pagamento, tra un allacciamento elettrico a Co-Energia e uno all’Eni… tra una Camera del lavoro di una volta e un centro servizi di una agenzia interinale. I primi creano inclusione sociale, offrono servizi accessibili a tutti, aumentano la “capacitazione” (direbbe Sen), sviluppano la personalità umana (direbbe la Costituzione italiana). I secondi sono “disabilitanti (direbbe Illich), alienano, atomizzano, instupidiscono.

Non è poi così difficile immaginare che gli abitanti riescano a riappropriarsi di pezzi e funzioni della città. Penso ad un percorso partecipato di ri-progettazione dell’ecosistema urbano da parte di collettivi di cittadini (che in tal modo formano comunità di intenti e di lotta) a scala di campiello, di insula, di parrocchia, di sestiere. Bisognerebbe partire da una ricognizione delle risorse e individuare i beni comuni, i patrimoni civici da rivendicare e da mettere a disposizione delle iniziative di sviluppo locale.  Pensiamo solo alle valli da pesca (1/4 della laguna) che i tribunali hanno dichiarato “beni comuni” e che l’ex Magistrato alle acque continua a regalare a facoltosi privati. Pensiamo all’Arsenale, al sistema dei Forti, al plateatico …. Bisognerebbe riuscire a creare “zone speciali liberate” dal dispotismo proprietario e dalle regole dello scambio monetario. A Napoli ci stanno riuscendo. Nel documento preliminare di indirizzo del nuovo Piano urbanistico comunale  c’è scritto: “Il diritto alla città comprende l’accesso alle risorse che regolano la vita nella città”.

Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 40 di Maggio - Giugno 2019. "Una città per tutti"

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