Secondo gli organizzatori, la missione non è soltanto un gesto simbolico ma un’azione concreta di solidarietà: forzare l’assedio significa rivendicare il diritto dei palestinesi a vivere liberi, con accesso a cibo, medicine e beni essenziali. «Non ci fermeranno né le intimidazioni, né le minacce di Israele», hanno dichiarato i portavoce della Flotilla, ricordando che si tratta di una missione pacifica e umanitaria, sotto gli occhi della comunità internazionale.
Israele ha già fatto sapere di considerare la Flotilla una “provocazione” e ha minacciato di impedire l’arrivo delle imbarcazioni a Gaza, ma gli attivisti ribadiscono che la loro azione è legittima e necessaria. Alcuni di loro hanno richiamato la memoria della Freedom Flotilla del 2010, quando l’abbordaggio israeliano provocò morti e feriti tra i passeggeri.
Oggi, a distanza di anni, il messaggio resta lo stesso: spezzare l’isolamento di Gaza e dimostrare che esiste un movimento internazionale disposto a rischiare per difendere il diritto alla vita del popolo palestinese. Intanto, nelle città di diversi continenti, associazioni e movimenti solidali organizzano presidi e manifestazioni per sostenere la missione e chiedere ai governi di garantire la sicurezza della Flotilla.
«Il mare è la nostra strada verso la libertà», affermano gli attivisti. E, nonostante le minacce, la Global Sumud Flotilla continua la sua rotta, portando con sé la speranza che l’assedio di Gaza possa finalmente essere infranto.
Intervista a due attivisti della Global Sumud Flotilla, la Flottiglia della Resistenza Mondiale
Fabio e Daniele potete presentarvi e raccontarci il vostro percorso personale e formativo?
Fabio: Sono nato a Leonforte, in provincia di Enna, nel 1966. Lavoro dal 1995 nell’Ufficio Tecnico del mio comune e sono cresciuto in una famiglia cattolica praticante. Questo imprinting mi ha riportato, da adulto, a ritrovare la strada di Dio. Ho conseguito la laurea in scienze religiose presso la Pontificia Università Santa Croce e sono Laico Missionario della Carità, ramo laico della congregazione fondata da Madre Teresa.
Daniele: Ho conseguito una laurea magistrale in materia ambientale, un dottorato e un master di secondo livello. Ho lavorato per una multinazionale che sfruttava l’ambiente, ma già allora ero attivo in contesti sociali vicini ad ambienti anarchici e di sinistra, senza però aderire all’idea anarchica. Ho creato comunità di cittadini, iniziando con un orto sociale poi divenuto un’associazione autofinanziata.
Il pacifismo ha un ruolo centrale nella vostra vita. Come lo vivete?
Fabio: Per me è un principio fondamentale. Gesù è stato il primo pacifista della storia: avrebbe potuto guidare una rivolta contro i Romani, ma ha scelto di insegnare a porgere l’altra guancia. Madre Teresa, la mia guida spirituale, diceva: “Non parteciperò mai a manifestazioni contro la guerra. Chiamatemi quando organizzerete una manifestazione per la pace”.
Daniele: Il mio pacifismo nasce dalla coerenza tra scelte di vita e impegno sociale. Non potevo lavorare in una multinazionale che distruggeva l’ambiente e, allo stesso tempo, proporre comunità fondate su valori opposti. Per questo, nonostante le prospettive di guadagno, mi sono licenziato e ho scelto di costruire una comunità basata sull’auto-sostentamento, il rispetto ambientale e l’ideale pacifista.
Come hanno inciso i conflitti in Ucraina e Gaza sul vostro impegno?
Fabio: Hanno rappresentato un colpo mortale al mio essere pacifista. A Gaza assistiamo ogni giorno a massacri di civili, giornalisti, donne e bambini. Netanyahu, criminale impunito, usa il sionismo messianico come copertura per un genocidio e una deportazione del popolo palestinese.
Daniele: È inammissibile ciò che accade. Il mondo non può restare a guardare. Il governo di Tel Aviv commette crimini atroci con una scusa pseudo-religiosa, utilizzando la fede per coprire la soppressione di un intero popolo autoctono.
Come siete entrati in contatto con la Global Sumud Flotilla?
Fabio: Ho aderito subito, appena ricevuta la richiesta di sostegno alla causa. Con la mia esperienza come redattore di una testata giornalistica online e gestore di canali social pacifisti, sono diventato addetto stampa e portavoce del comitato siciliano del Global Movement to Gaza.
Daniele: Dalla mia scelta di vita coerente è derivato anche l’attivismo. Prima con la Freedom Flotilla e ora con la Global Sumud Flotilla. Sono stato contattato dalla delegazione internazionale perché la mia comunità è diventata un punto di riferimento locale per la logistica delle partenze verso Gaza.
Qual è il vostro ruolo specifico nella Flotilla?
Fabio: Non posso partire fisicamente, perché disabile, ma metto le mie competenze a disposizione come comunicatore e intellettuale, con un impegno silenzioso e costante per i bambini di Gaza.
Daniele: Io invece fornisco supporto logistico e organizzativo. Sono consapevole che le navi saranno probabilmente sequestrate e che viveri e medicinali non arriveranno a destinazione. Ma è necessario tentare di rompere l’embargo. Per continuare a lavorare con discrezione, ho chiesto di non utilizzare il mio vero nome.
Il vostro impegno ha anche un forte significato spirituale e culturale. Come lo interpretate?
Fabio: Madre Teresa insegnava che il silenzio porta all’amore e al servizio. Questo è il mio approccio: servire in silenzio la causa palestinese, pensando ogni giorno ai bambini di Gaza.
Daniele: Sono onorato di contribuire, anche nel silenzio, a una causa umanitaria, cercando di portare assistenza a un popolo che muore letteralmente di fame e di guerra.
Come interpretate, da credenti e studiosi, il sionismo messianico?
Fabio: Studiando la Bibbia, so che Dio chiamò Abramo e poi guidò l’esodo dall’Egitto, ma nei testi sacri non vi è alcuna legittimazione al ritorno in Palestina dopo la distruzione del Tempio nel 70 d.C. Il sionismo messianico ha usurpato questa narrazione, trasformandola in un progetto politico e coloniale. Gli ebrei askenaziti, oggi maggioranza, non discendono dalle dodici tribù di Israele ma da conversioni in Europa orientale. Hanno subito l’Olocausto e ora replicano, inconsciamente, la violenza subita, ammantandola di una giustificazione religiosa che in realtà non esiste.
-----------------------------------------------------------------------------------------------
“Navigando insieme, da 44 paesi per aiutare Gaza”. Intervista a Abu Sara, attivista della Global Sumud Flotilla
Claudio Tamagnini, conosciuto come Abu Sara, è uno degli attivisti italiani impegnati nella Global Sumud Flotilla, la missione internazionale che si prepara a salpare verso Gaza con imbarcazioni provenienti da diversi paesi del mondo. Lo abbiamo intervistato nei giorni di attesa e di training in Tunisia, dove racconta l’atmosfera tra equipaggi, volontari e sostenitori della causa palestinese.
Come si stanno svolgendo i primi giorni di preparazione della Global Sumud Flotilla?
Per due giorni siamo rimasti in porto, poi mi sono spostato anch’io in città per il primo incontro con gli equipaggi registrati. Siamo circa una cinquantina, collegati con la coordinatrice dell’operazione. L’idea è viaggiare come una flotta compatta, a una media di quattro nodi. Qualcuno borbotta: le barche a motore, andando così piano, consumano comunque carburante e finiscono fuori rotta, perché non hanno la deriva delle barche a vela. Ma poi si vedrà…
Com’è la situazione dal punto di vista logistico e delle imbarcazioni?
In porto, all’inizio, non c’era ancora nessuna barca a parte la nostra. Le altre andavano recuperate in diversi porti, ed erano tutte a motore. I capitani tunisini, infatti, provengono da quella tradizione: non skipper di velieri, ma uomini di barche a motore. Qui chi vuole farsi vedere compra uno yacht, non certo una barca a vela. Intanto abbiamo saputo che le imbarcazioni partite da Barcellona erano state costrette a rientrare per maltempo. Questo rischia di far slittare tutto.
Parallelamente alla preparazione, ci sono state anche iniziative pubbliche?
Sì, la sera si è tenuta una bella manifestazione per la Palestina e per la Sumud Flotilla davanti al teatro comunale. Non eravamo tantissimi, ma c’erano molte donne e tanti slogan.
Che tipo di atmosfera si respira nella vita quotidiana degli attivisti?
Ogni sera un attivista nato e cresciuto in centro, Majid, che ha un po’ l’aria di uno spirito della lampada – il suo nome significa “il glorioso” – ci porta a bere birra tunisina e a mangiare qualcosa in posti diversi. Il primo era un locale gestito da italiani ai tempi di suo padre. Si mangia bene. Con noi c’è anche una capitana che accompagna gruppi familiari in gite. Sempre con Majid giriamo a cercare pezzi di ricambio, mentre un suo amico, vecchio lupo di mare, è partito a prendere un’altra barca a Monastir. Fa impressione pensare che a Tunisi non abbiano preparato le imbarcazioni per tempo, mentre qui ci sono oltre 40 gradi e lo scirocco è davvero cattivo.
Avete iniziato il training?
Sì, finalmente. Si è svolto in un salone del sindacato dei lavoratori tunisini. Ho subito chiesto la provenienza dei partecipanti ed è stata una sorpresa: oltre agli americani e agli europei, c’erano attivisti dalle Maldive, Sudafrica, Indonesia, Oman, Mauritania, Iraq, Kuwait, Iran, Turchia, Algeria. Tutti si ringraziavano a vicenda per esserci, come in una gara a chi fosse più vicino ai palestinesi. Non è un’illusione: la partecipazione di 44 paesi è realtà.
Quali sono stati i contenuti principali del training?
Ci aspettavano in 130, siamo il doppio. Due giorni intensi di raccomandazioni, soprattutto sulla nonviolenza, ricordando i successi della resistenza nonviolenta: Sudafrica, afroamericani, le marce delle donne. Ma anche la tragedia della Mavi Marmara, con la dura reazione degli attivisti turchi.
Ci sono stati momenti particolarmente emozionanti per te?
Sì. Al secondo giorno, in video da Berlino, è comparso il mio amico Karam. Nel 2011, a Nabi Saleh, correvamo insieme per sfuggire ai soldati. Lui era paramedico, poi ha lasciato quel lavoro per diventare attivista. È bravissimo, ha fatto anche training per l’ISM in Italia. Con lui abbiamo simulato un assalto dei commando israeliani: molto efficace. Poi ho rivisto Ann Wright, ex colonnello dell’esercito americano, diventata pacifista dopo l’esperienza in Somalia negli anni Novanta. Con lei avevo già condiviso la Flotilla del 2015: grandi abbracci.
E adesso cosa vi aspetta?
Sembra che i due velieri arrivati dall’Italia verranno presi in consegna dal gruppo turco, che almeno ha skipper esperti di vela. Intanto è ufficiale: partiremo domenica 7. Finalmente ci sarà qualche barca in più!
Laura Tussi