Disastro del Vajont

di Pancho Pardi - 06/10/2023
La tragedia del Vajont è un caposaldo della memoria necessaria sulla gestione degli spazi abitati. Mi ha colpito una recente intervista del regista tedesco Werner Herzog, in cui ha dichiarato di considerare il disastro del Vajont, da lui visitato e documentato, un momento chiave della nostra epoca.

9 ottobre 1963, disastro della diga del Vajont, affluente in sinistra del Piave, nel territorio di Belluno e Udine. Esempio indimenticabile nella gestione del territorio italiano. Vi si intrecciano fattori naturalistici, economici e anche politici. La natura intima delle nostre montagne, con la varietà delle formazioni rocciose e il modellamento morfologico, qui di potente azione glaciale. Gli effetti molteplici dell’intervento umano. Il bisogno crescente di energia elettrica e l’iniziativa privata alla ricerca del profitto d’impresa. Il conflitto tra i sostenitori del padronato conservatore e i riformisti che proponevano la nazionalizzazione dell’energia elettrica.

Nel boom economico del dopoguerra l’esigenza di potenziare la produzione di energia elettrica, tramite la caduta di acqua in condotte forzate da bacini in quota per far girare le turbine, aveva promosso la ricerca dei siti adatti. Era un campo di esperienze italiane d’avanguardia nel contesto internazionale. Orientamento strategico ancora oggi attuale a causa della necessità di produrre energia senza emissioni nocive. Il disastro avviene un anno dopo la nazionalizzazione dell’energia elettrica (1962), iniziativa riformistica sostenuta dalle sinistre e a lungo osteggiata dallo schieramento conservatore. Quando alla fine l’operazione fu conclusa le imprese private, che erano state sostenute dallo Stato con ingenti contributi a fondo perduto, furono anche compensate con indennizzi scandalosi. L’impresa costruttrice del Vajont era dunque privata ma il disastro avvenne quando era subentrata da un anno la proprietà pubblica. Ciò influì anche sulla contorta vicenda giudiziaria successiva.

La valle del Vajont si presentava in apparenza adatta. Una valle stretta in mezzo ai monti, orientata est-ovest, una forra strettissima di uscita verso la confluenza nel Piave scorrente da nord a sud, all’altezza di Longarone, centro insediato sul lato opposto del fiume. Bastava chiudere la stretta valle a V per avere acqua imprigionata in abbondanza e il dislivello utile a creare energia con la caduta controllata. La SADE, Società Adriatica di Elettricità, impresa privata collegata alla Montecatini, era guidata dai grandi proprietari del capitalismo veneziano. Vi spiccavano Giuseppe Volpi (dal 1925 al ’28 ministro delle Finanze nel governo Mussolini) e Vittorio Cini (ministro per le Comunicazioni nell’ultimo governo del regime), entrambi nel dopoguerra saldamente collegati al blocco di potere democristiano. La procedura per l’autorizzazione ministeriale iniziò fin dal 1943, alla vigilia dell’arresto di Mussolini, e fu perfezionata all’antivigilia dell’armistizio dell’8 settembre. Poco più di un mese dopo, il parere favorevole del consiglio superiore dei lavori pubblici fu dato in una seduta priva del numero legale: presenti solo 13 su 34. Il 5 agosto del 1946 giunge la ratifica definitiva espressa nel quadro della Repubblica italiana. Il 15 giugno del 1957, il consiglio superiore dei lavori pubblici approva il progetto benché sia privo della relazione geologica; i lavori erano già iniziati sei mesi prima. L’esito confermava la vocazione monopolistica dell’azienda che, con il controllo sull’acqua e l’elettricità che ne derivava, aveva in mano le redini dell’economia e della società nella regione.

L’idea progettuale poteva avere un fondamento ma in quali condizioni geologiche erano i fianchi dei monti interessati dal futuro invaso? Quando il versante di una montagna viene sommerso fino a quote prima interessate solo da pioggia e neve le conseguenze vanno immaginate, previste, calcolate. Gli strati, che in condizioni naturali appaiono coerenti e stabili, sotto la presenza pervasiva e insinuante dell’acqua possono mostrare una tendenza al cedimento gravitativo altrimenti meno probabile (anche se in certe condizioni la spinta della massa d’acqua può temporaneamente avere un effetto di contenimento sui movimenti del versante). Le indagini scientifiche misero in luce profondi motivi di preoccupazione. Un noto esperto austriaco, Muller, individuò sul fianco sinistro della valle, dominato dal Monte Toc (già noto da decenni per l’elevata franosità: per i conoscitori di toponomastica patoc vuol dire marcio) tracce che facevano ipotizzare l’esistenza di una corposa paleofrana. Al contrario il prof. Dal Piaz, luminare dell’Università di Padova, ne negò la presenza e ignorò i rischi connessi, sostenendo trattarsi di trascurabili movimenti superficiali.. Il geologo Edoardo Semenza, figlio del progettista della diga, confermò invece la paleofrana, testimonianza inequivoca di un’antica mobilità del versante. E individuò con precisione una linea di circa un chilometro e mezzo di miloniti non cementate (rocce finemente fratturate che testimoniano frizioni causate da dislocazione tettonica). Sia Muller che Semenza suggerirono l’installazione di strumenti necessari a rivelare movimenti di cedimento nel versante e indagini più incisive in profondità. Comunque appariva chiaro fin dall’inizio come quel lato del versante fosse costituito da formazioni robuste alternate ad altre meno affidabili con l’aggravante di una diffusa giacitura a franapoggio: gli strati risultavano inclinati verso il centro della valle. Una condizione che, se non impone, senza dubbio favorisce lo scivolamento gravitativo. Nel ’59 un altro esperto, Caloi, garantiva eccezionale solidità delle rocce. Si deve rilevare come questo dibattito, che avrebbe dovuto precedere la fase progettuale, si svolgeva mentre la diga era da tempo in costruzione (1957-59), e agli inizi anche priva di autorizzazione. Lo stesso contesto territoriale doveva indirizzare alla prudenza: nella stessa vasta area montuosa un evento franoso di discrete proporzioni era già avvenuto: il 22 marzo 1959 nell’invaso sbarrato dalla diga di Pontesei (sempre di proprietà SADE) tre milioni di metri cubi erano sprofondati nel lago.

Sulla base errata della montagna creduta solida, la diga sbarrò la forra di uscita del torrente nella valle principale. Alta, stretta, elegante. Convessa verso l’interno per contrastare la spinta dell’acqua, concava verso l’esterno, rassicurante per chi sta sotto. Il cemento armato ben progettato e ben eseguito fa prodigi. La bellezza dell’opera ingegneristica concludeva un lungo difficile lavoro che era costato la morte a non pochi operai e non faceva dimenticare i numerosi soprusi della SADE nei confronti dei montanari dei paesi Erto, Casso e delle loro numerose frazioni: terreni pagati una miseria, con l’aiuto di un procuratore alla vendita che era in realtà al servizio della SADE stessa; sgomberi sbrigativi; il tutto accompagnato da un’opzione di acquisto sui terreni alti, al di sopra del futuro lago, di cui si scoprirà alla fine la cinica ragione. La V della diga del Vajont guardava il lato opposto dell’Adige, dove gli abitanti di Longarone pur preoccupati non volevano pensare al peggio.

Nel 1959 la diga era ultimata e iniziarono le prove di invaso. Si fa crescere gradualmente il livello dell’acqua con pause di sosta tra una quota e l’altra, per osservare le possibili modificazioni nei versanti. Il 4 novembre del ’60, con la superficie del lago a circa 650 metri di quota, il Monte Toc dette un segno inequivocabile: dopo segni premonitori, come l’evidenza crescente di una fessura perimetrale a forma di grande M, larga da 50 cm a 1 cm, una massa di roccia stimata poi in circa 750.000 metri cubi scivolò nel lago: la possiamo raffigurare come un cubo di circa 90 metri di lato. Si potrebbe immaginare che l’evento producesse un ripensamento critico sull’affidabilità del versante. Invece si pensò solo a fronteggiare l’ipotesi di un eventuale sbarramento per frana del lago tramite un tunnel drenante in grado di travasare l’acqua imprigionata a monte per farla giungere fino alla diga e alle condotte delle turbine. Caloi in una nuova indagine rilevò in punti chiave roccia finemente fratturata e sostenne che il fenomeno si era verificato tra la sua prima e la seconda indagine. L’idea della roccia solidissima era così messa in dubbio da chi l’aveva sostenuta. Alla fine del ’59 la relazione Giudici-Semenza illustrava analiticamente i rischi dell’impresa. Mentre Dal Piaz continuava imperterrito a negare pericoli.

Gli abitanti di Erto e Casso, paesi insediati a quote superiori alla superficie del futuro lago, si erano abituati a tendere l’orecchio agli scricchiolii della montagna e a scoprire con maggiore attenzione fessure e dislocazioni. Le strade di versante d’improvviso cedevano, i muri a retta dei terrazzamenti venivano spezzati, le pietre rotolavano, smottamenti di terreno alteravano i prati da pascolo. Sempre più spesso pali della luce e grandi alberi da un giorno all’altro apparivano inclinati. I frequentatori abituali del monte nutrivano timori crescenti ma non avevano il potere di renderli pubblici e persuasivi per le autorità. La SADE, incurante di qualsiasi allarme marciava a passo di carica attraverso le procedure dei collaudi per giungere finalmente alla piena attività dell’opera e alla riscossione dei conseguenti profitti. Nella generale omertà solo Tina Merlin, giornalista dell’Unità, continuò a documentare caparbiamente l’intera vicenda e a illustrarne i rischi disastrosi. Fu perfino denunciata per diffusione di notizie false e tendenziose, venendone poi assolta.

Attraverso varie prove di invaso a diverse quote si giunse alla data del disastro. Si verificarono cedimenti ripetuti di piccole porzioni di versante, tanto che la SADE e i comuni locali si accordarono per la diffusione di un’ordinanza che diffidava gli abitanti a frequentare le rive del lago a causa della pericolosità dell’onda causata da smottamenti improvvisi e imponeva loro di rinunciare alla pesca sulla riva. Cautela legale: l’ordinanza liberava i firmatari dalla responsabilità per eventuali danni subiti dagli inadempienti.

Si giunse a riempire l’invaso fino a circa 700 metri di quota. Alle ore 22,39 del 9 ottobre del ’63 la diga non cedette ma il versante sì. Il Monte Toc riversò nell’invaso una massa crollata di proporzioni gigantesche: da una nicchia di frana estesa per due chilometri, circa 270 milioni di metri cubi precipitarono nel lago in venti secondi: l’immaginazione può misurarla come un cubo di circa 650 metri di lato. L’impatto generò un’onda che schizzò verso l’alto fino a lambire l’abitato di Casso, investì e distrusse varie frazioni di Erto e Casso; a ovest una massa di acqua e fango stimata in 50 milioni di metri cubi scavalcò la diga con un onda alta forse 200 metri al di sopra del suo margine superiore. Di questa massa circa la metà, 25 milioni di metri cubi, rastrellò sul piano dell’Adige tutto ciò che incontrava, dai ciottoli del fiume ai manufatti, per scagliarlo in meno di quattro minuti sul versante opposto spianando Longarone e altre frazioni con i loro abitanti. Effetti letali si ebbero, in rapido anticipo sull’arrivo dell’acqua fangosa, per la violenta onda d’urto dell’aria mossa dal corpo di frana. Risultarono alla fine 1910 vittime. I corpi delle vittime furono trascinati via dall’ondata di piena e abbandonati insieme agli animali travolti e agli infiniti rottami lungo il corso del fiume e ritrovati anche alla foce dell’Adige e in mare. A lungo quella porzione del fondovalle apparve come una sterminata distesa di fango costellata dai mozziconi dei muri abbattuti.

A dimostrazione della validità del progetto ingegneristico la diga, pur incardinata a sud in un versante dalla stabilità dubbia, resse all’urto. Il fianco del Toc crollato non fu capace di abbatterla. Solo il coronamento superiore, con la strada, fu distrutto. La diga è sempre lì a mostrare la propria tenuta. Ma Longarone, come Erto e Casso, ha dovuto essere ricostruito dalle macerie e centinaia di famiglie sono state distrutte o smembrate.

Il disastro suscitò un’eco vastissima e alimentò un dibattito acceso sulle responsabilità. Quelle della SADE erano più che manifeste. Solo le sinistre (PCI e, con qualche cautela, PSI) sostennero la gravità delle responsabilità SADE. A sua difesa si schierò l’intero blocco guidato dalla DC invocando cause naturali e tragica fatalità. In questo coro, Indro Montanelli non perse l’occasione di difendere l’iniziativa privata sostenendo l’evidenza di cause naturali e accusando Tina Merlin di sciacallaggio. Dopo un lungo tira e molla, alla fine, anni dopo, Montanelli ammise l’errore ma ribadì che l’attacco alla Merlin era giustificato dal suo sostegno alla nazionalizzazione e aggiunse, a testimonianza della sua testardaggine, che in condizioni analoghe l’avrebbe rifatto.

Le conseguenze giudiziarie sono un capitolo che dovrebbe essere affidato a uno specialista. Ma dal punto di vista del cittadino sembra inevitabile sostenere che l’esito fu sommamente deludente. Andarono a processo undici imputati, tutti dirigenti SADE, divenuti in blocco nel ’62 dirigenti Enel. Due morirono prima della fine dei procedimenti. Uno, Pancini, si suicidò per il rimorso. Il processo fu subito spostato all’Aquila per legittima suspicione. La prossimità al luogo del disastro veniva sconsigliata per motivi di ordine pubblico. Motivazione identica fu adottata anche per spostare da Milano a Catanzaro il processo sulla Strage di Stato (12 novembre 1969: una data fondamentale della nostra storia). Il processo fu affrontato in condizioni di plateale disuguaglianza tra le parti. Gli imputati erano sorretti dalla ricchezza e dal sostegno di tutti i poteri. L’Enel, subentrata alla SADE, non prese, come avrebbe potuto, alcuna iniziativa di rivalsa nei confronti della proprietà privata precedente, anzi si adeguò in pieno alla sua protezione. Intanto i parenti delle vittime raggiungevano a stento e con gravi sacrifici la sede del processo e non avevano i mezzi per pagare gli avvocati. La mancanza di soldi causò a un certo punto anche la rottura nel fronte delle parti civili tra chi per disperazione accettò i miseri risarcimenti e chi volle condurre la battaglia fino alla fine. L’accusa chiese condanna a 21 anni per tutti gli imputati tranne uno.

Per proseguire qui è necessaria una breve parentesi. Un contributo straordinario alla conoscenza dell’intera vicenda e anche al suo aspetto giudiziario è fornito da un libro di recentissima uscita: Piero Ruzzante (con Antonio Martini), L’acqua non ha memoria, Storia salvata del disastro del Vajont, UTET, Milano 2023. L’autore illustra con le testimonianze dirette e indirette, raccolte in un lungo e paziente lavoro di inchiesta, la diffusa e generale conoscenza del pericolo incombente; l’autocensura SADE sugli esperimenti di laboratorio condotti nel 1962 dal Prof. A.Ghetti dell’Istituto di Idraulica dell’Università di Padova, finanziati dall’impresa stessa e poi occultati, che dimostravano la possibilità di una frana catastrofica; la riduzione sistematica dell’allarme anche nell’immediata prossimità del disastro. Ma anche su altro tema decisivo la tenacia dello studioso ci aiuta a capire. Ruzzante argomenta anche una spiegazione per il precipitoso acquisto negli ultimi giorni delle terre alte intorno al lago: era la soluzione più vantaggiosa al confronto col la necessità di indennizzo dopo la catastrofe (dunque prevista?). L’autore ha avuto l’opportunità di consultare archivi prima ignoti e ha tratto da essi elementi che gettano una luce inequivocabile sulle responsabilità SADE. Un punto essenziale riguarda il baricentro strategico della sentenza. Essa non riconobbe la prevedibilità del disastro. Come fu possibile? L’archivio dello studio Brass, a difesa di SADE, mostra una lunga corrispondenza che non lascia dubbi. L’abilissimo avvocato Brass convinse il geologo Muller a modificare il suo originario punto di vista e ad ammettere che, pur annunciata da tanti sintomi, la catastrofe non era prevedibile. Ciò permise alla corte di ridimensionare energicamente le colpe degli imputati. Condannò i tre maggiori dirigenti a sei anni di cui due condonati, gli altri furono tutti assolti. Nel ’70 in appello i condannati furono ridotti a due, rispettivamente a sei anni e quattro anni e mezzo. Nel ’71 la sentenza della Cassazione confermò le condanne ai due imputati. Il massimo dirigente, Alberico Biadene, a cinque anni, due per il disastro, tre per gli omicidi (erano 1910: si potrebbe fare il calcolo di quanti giorni valeva la vita della singola vittima). Tre anni gli furono condonati, e uscì dopo due anni di buona condotta. Francesco Sensidoni, membro della commissione di collaudo della diga, che si era fatto scrivere la relazione dall’ufficio studi SADE, ebbe tre anni e otto mesi di reclusione; anche a lui tre anni furono condonati e per motivi di salute non scontò la pena in carcere. Questa l’opera della giustizia penale: si potrà mai sostenere che le 1910 vittime hanno ricevuto giustizia?

La vicenda dei risarcimenti fu ancora più lunga e complicata. Si deve distinguere. Per i risarcimenti agli enti locali solo nel 2000 si giunse a un’intesa finale che ne ripartiva il peso in tre parti uguali tra Enel, Montedison e Stato. Quanto ai superstiti, erano ridotti di numero perché la maggioranza, costretta dalla necessità, aveva finito per accettare la proposta risarcitoria dell’Enel. Uno di essi commentò: “Ci viene ben poco ormai con la svalutazione. Ma per noi si trattava di una questione morale, non di soldi”. Una sottigliezza giuridica dell’avvocato Leone, nel collegio a difesa dell’Enel e in seguito presidente della Repubblica, basata sull’art. 4 del Codice Civile, privò del risarcimento 600 parti civili: se padre e figlio muoiono nello stesso momento senza aver potuto passare l’eredità ai discendenti, figli e nipoti non possono ricevere risarcimento (pag. 253-54 del libro di Ruzzante). Nella stessa pagina 254 è illustrato il destino dei finanziamenti per la ricostruzione, deformato dalla possibilità di vendere i diritti e dall’impiego dei fondi per finalità del tutto estranee alla vicenda e al suo territorio. Per chi sia interessato all’argomento consiglio la lettura completa di questo libro appassionante.

Ventidue anni dopo il disastro del Vajont, 19 luglio del 1985, la val di Stava, in Trentino, fu teatro di una nuova catastrofe. Cedettero gli argini di contenimento dei bacini di decantazione della miniera di fluorite di Prestavel, nel comune di Tesero. I bacini furono costruiti in base a insufficienti cautele di localizzazione e progettazione. Incombevano dall’alto su una zona fittamente abitata a una distanza inferiore a un chilometro. All’inizio degli anni settanta, quindi in tempo per recepire l’insegnamento del Vajont gli argini del primo bacino, in terra, inizialmente alti 9 metri, furono innalzati fino a sopra i 25 metri. Colmato il primo bacino ne fu costruito un secondo incombente sul primo con la stessa tecnica irresponsabile. L’altezza complessiva degli argini superò i 50 metri. Guasti alle condutture che drenavano il bacino superiore determinarono alla fine il cedimento dell’argine che riversò il contenuto nel bacino sottostante producendone l’immediato collasso. La massa fangosa di circa 180.000 metri cubi, alla velocità di circa 90 chilometri orari spazzò via tutto ciò che incontrava fino alla confluenza col torrente Avisio. 267 persone morirono seppellite nel fango. Alberghi, abitazioni, capannoni furono completamente distrutti, centinaia di alberi sradicati. Fu accertata la responsabilità dei direttori della miniera e dei costruttori dei bacini; dei responsabili del distretto minerario della Provincia autonoma di Trento; delle società concessionarie, tra cui la Montedison. La lezione del Vajont non aveva trovato ascolto.

Trentaquattro anni dopo (1997), andò in onda in diretta su Rai 2 dal Vajont un racconto appassionante della vicenda realizzato da Marco Paolini, esperto uomo di teatro: esempio raro e straordinario di quanto la televisione potrebbe fare nella documentazione intelligente della realtà e della vita. Vari sono gli insegnamenti ricavabili dal Vajont. La necessità di produrre energia elettrica senza emissioni potrà porci nel bisogno di sommergere altre valli, con il costo economico e sociale dello spostamento di insediamenti storici, per creare altri laghi artificiali. Ma prima di tutto sarà necessaria la più rigorosa indagine geologica su composizione e giacitura delle formazioni rocciose interessate. E’ compito esclusivo della scienza. Ma le comunità locali devono essere sempre coinvolte perché tra gli abitanti non manca mai chi possiede conoscenza diretta dei luoghi e capacità di coglierne, se non interpretarne, le più minute modificazioni (come ad esempio le linee di frattura apparse per tempo agli abitanti ma trascurate o sottovalutate sul Monte Toc).

Ma la ricorrenza del disastro del Vajont è l’occasione per tenere a mente, una volta di più, i maggiori rischi presenti nell’assetto idrogeologico del paese. Dobbiamo fronteggiare ciclicamente i terremoti. Dal Friuli alla dorsale nascosta sotto la pianura padana, dall’ Appennino umbro-marchigiano a quello abruzzese, dall’Irpinia al Belice in Sicilia, la sismicità ha colpito e colpirà, non sappiamo con precisione dove e quando, ma siamo sicuri che non scomparirà mai. Sotto questo profilo viviamo nella sua sempre più consapevole attesa. Ciò impone misure, aggiornate al progresso delle conoscenze scientifiche, di indirizzo sulla manutenzione del patrimonio edilizio esistente e su quello di futura costruzione. Anche in assenza di terremoti subiamo a scadenze irregolari gli effetti disastrosi dell’instabilità dei versanti e della franosità, spesso accompagnati da precipitazioni intense: centri interi sbriciolati e smembrati, distruzioni irrimediabili, ricostruzioni costose (elenco qui impossibile). Le pianure sono il terreno abituale di esercizio delle alluvioni. I fiumi rompono gli argini o li superano con piene improvvise e furibonde, dilagano nei piani, allagano tutto ciò che incontrano, sommergono residenze, insediamenti produttivi e commerciali, infrastrutture vitali. Danni aggravati dalle crescente tendenza a costruire dove la legge lo vieta e dove la prudenza consiglierebbe di astenersi. Se si pensa che la massima parte degli argini fluviali è stata costruita in epoca preindustriale, col lavoro manuale e l’ausilio animale, c’è da vergognarsi al pensiero che con i mezzi tecnici ora disponibili non si riesca a garantire la loro efficacia e resistenza.. Nasce qui una domanda spontanea: i capitali del Superbonus non era più ragionevole dedicarli, invece che alla cosmesi delle case dei ricchi, alla garanzia dell’ordine idraulico? La tragedia del Vajont è un caposaldo della memoria necessaria sulla gestione degli spazi abitati. Mi ha colpito una recente intervista del regista tedesco Werner Herzog, in cui ha dichiarato di considerare il disastro del Vajont, da lui visitato e documentato, un momento chiave della nostra epoca.

 

T. Merlin, Sulla pelle viva, Cierre, Caselle di Sommacampagna 2001(prima ed. 1983)

M. Paolini, G. Vacis, Il racconto del Vajont, Garzanti, Milano 2000

M. Reberschak, Il Vajont dopo il Vajont, Marsilio Editori, Venezia 2009

B. Vazza, In meno di quattro minuti. Testimonianza sul Vajont: la strage e l’umiliazione, Cleup,. Padova, 2017

L. Vastano, Vajont, l’onda lunga, Sinbad Republic, Milano 2017

P. Ruzzante, Antonio Martini, L’acqua non ha memoria, storia salvata del disastro del Vajont, UTET, Milano 2023

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