Pancho Pardi: Il vaso di Pandora del coronavirus

di Pancho Pardi - 27/06/2020
La pandemia di Covid-19 mostra come l’aggressione di uno sconosciuto agente patogeno possa in pochi giorni indurre una semiparalisi globale in una società organizzata per il moto perpetuo. Una paralisi che ci pone interrogativi incalzanti sulle diseguaglianze, sul rapporto tra pubblico e privato, sulla relazione tra essere umano e natura. Facciamo in modo che la risposta non sia tornare a fare le cose di prima, allo stesso modo di prima

A scadenze imprevedibili il rapporto critico tra uomo e natura si ripresenta ogni tanto con maggiore urgenza. L’ultimo sussulto riguardava il riscaldamento globale, che nessuno pensa più di negare, e la responsabilità umana, che non tutti ammettono. Nel contesto di questo dibattito giunge di colpo tra noi la pandemia di coronavirus. Quando l’affanno sanitario si sarà placato, prima o poi ci saranno sottoposte con rigore ipotesi sulle concause umane della pandemia. Il dominio umano del mondo libera e diffonde virus che in altre condizioni resterebbero confinati nei loro ambienti circoscritti? C’è chi, già al tempo di Ebola, aveva pensato ai segreti sfuggiti alle foreste pluviali non più intatte, chi ha immaginato fuoriuscite insidiose dallo scioglimento dei ghiacci fossili. L’indagine scientifica saprà verificare. Per il momento il semplice sospetto che il vaso di Pandora riaperto da mani incaute abbia diffuso nuovi mali è sufficiente a interrogarci di nuovo sul nostro rapporto con la natura. Resta comunque il fatto che i virus sono presenti sulla terra da un tempo molto più lontano della nostra recente comparsa e hanno la capacità vitale di innestarsi e replicarsi nelle cellule delle specie viventi, dai batteri all’uomo. Il nostro corpo è da sempre terreno di caccia e habitat occasionale per agenti patogeni.

La specie umana ha approfittato della generosità della natura. Ma il costante e crescente abuso esercitato dall’uomo è assai più pericoloso per l’uomo stesso che per la natura. La natura in quanto tale è disinteressata alle nostre disgrazie. La terra ha attraversato fasi e vissuto condizioni, misurate sul nostro metro, ben più proibitive: nell’Archeano un’atmosfera a base di metano e priva di ossigeno; la contrazione dei continenti arcaici nella Pangea, poi l’apertura di vasti oceani e la contestuale migrazione delle masse continentali; centinaia di milioni di anni in cui la vita era solo in ambiente marino; la trasformazione dei fondali oceanici in poderose catene montuose; grandi e ripetute estinzioni della maggior parte delle specie viventi; impatti di giganteschi meteoriti che hanno cancellato specie all’apice della catena alimentare; mutazioni e comparse di nuove specie, e infine fasi glaciali e interglaciali al confronto delle quali il mutamento climatico attuale ha proporzioni irrisorie. Ad esempio nell’ultimo interglaciale Riss-Wurm, compreso tra 139 e 116 mila anni fa, il livello del mare è stato stimato in circa 15 metri al di sopra dell’attuale. E durante l’ultimo glaciale (Wurm) con apice intorno a 20 mila anni fa il livello del mare si considera disceso a meno 100 metri al di sotto per poi risalire al livello attuale. Così anche in tempi geologici recenti l’ambiente terrestre ha cambiato volto. Quanto alla delicatezza del nostro habitat basti pensare che oggi parte delle città costiere del mondo è incompatibile con l’innalzamento di un solo metro del livello del mare. Ne risulta un fatto innegabile. La terra può benissimo fare a meno dell’uomo. E’ stato così per la quasi totale durata del suo tempo: quattro miliardi e mezzo di anni contro i soli centomila di homo sapiens. Paragonata la vita della terra alla durata di un anno, la specie umana comparirebbe solo negli ultimi minuti del 31 dicembre. La sua natura di pianeta vivente non verrebbe meno solo per la scomparsa del suo predatore attualmente dominante. Al contrario l’uomo non può fare a meno della terra. Ma questo è ancora poco. Non lo salva una terra qualsiasi: può prosperare solo in determinate e circoscritte condizioni ecologiche, che tuttavia vengono sottoposte a continua e crescente forzatura. Nella sua brevissima esperienza la specie umana si è caratterizzata come l’agente ecologico più creativo ma anche più dissipatore e distruttivo mai comparso sulla terra. Ha cambiato la faccia al mondo con la pastorizia e l’agricoltura, ha cancellato foreste e moltiplicato all’infinito seminativi. Ha tagliato istmi e fatto a pezzi montagne (basta vedere come sono ridotte le Alpi Apuane). Ha guadagnato al mare terre coltivabili. Ha scavato le viscere della terra e deviato fiumi. Ha ridisegnato la geografia delle specie vegetali e portato all’estinzione una quantità incalcolabile di specie animali. Ha intaccato la biodiversità con una potenza che nessuna delle altre specie ha mai manifestato. Con la proliferazione degli insediamenti, le metropoli e le infrastrutture ha occupato spazi vastissimi. Con le attività minerarie e industriali e la chimica applicata all’agricoltura ha inquinato in profondità atmosfera, terre e mari, e nello stesso breve periodo ha continuato a moltiplicarsi a un ritmo vertiginoso. Una specie sempre più affamata di carne e di pesce è condannata a dare il colpo di grazia alle foreste e alle non infinite riserve marine. L’orgoglioso mito di Prometeo va riletto controluce. L’uomo sta varcando i limiti che garantiscono la sua sicurezza di specie e mette a repentaglio in misura crescente la sua sopravvivenza. Stenta a prendere atto con la necessaria consapevolezza del proprio ruolo nel riscaldamento globale. Ora il coronavirus mostra come l’aggressione di uno sconosciuto agente patogeno possa in pochi giorni indurre una semi-paralisi globale in una società organizzata per il moto perpetuo.

Un secolo fa la pandemia “spagnola”, aveva aggiunto i suoi milioni di morti a quelli causati dalla prima guerra mondiale. La peste e la guerra spesso vanno di pari passo. Era già successo ad Atene nella guerra del Peloponneso. E ha continuato ad accadere. Ma contemporaneità non significa identità. Comunque ora, nelle mutate condizioni sanitarie, il paragone retorico della pandemia con la guerra non regge. Non per la contabilità delle morti, che nelle guerre del secolo passato è stata infinitamente superiore. Non per la loro distribuzione: la guerra decima soprattutto i giovani maschi, la pandemia colpisce in massima parte gli anziani di entrambi i sessi. Non per gli effetti materiali: la guerra distrugge case, industrie, infrastrutture, devasta città, campagne e regioni intere, abbandona macerie ingombranti; la pandemia passa sul mondo come una strega invisibile che lascia solo lutti e dolori. Né per le conseguenze economiche: la guerra moderna è un formidabile moltiplicatore economico (prima e durante per chi la vince, dopo perfino per chi la perde: la Germania dopo la seconda guerra mondiale) mentre la pandemia, arrestando la società, ha chiari effetti recessivi. Ci costringe a vegetare in temporanea immobilità, blocca produzione e consumi, riduce il ciclo economico al suo basso rumore di fondo. La “spagnola” toglieva la vita, il coronavirus toglie a molti la vita ma a molti, molti di più il reddito. Ci rivela una volta di più la nostra estrema vulnerabilità. Col protrarsi dello stato di allarme la durata degli arresti domiciliari (è lo scherzoso appellativo corrente) si è allungata e sono cominciati i tentativi di accelerare il passaggio alla cosiddetta fase 2: l’insofferenza personale si unisce all’invocazione delle necessità economiche. Certo, la stasi della società ha gravissimi e duraturi effetti economici. E’ innegabile, ma la pandemia si presenta con la minaccia dell’antico brigante di strada: o la borsa o la vita!

Di fronte all’avanzare della peste, le cui origini dovevano restare sconosciute per secoli, le società “ignoranti” avevano elaborato per difesa la tecnica dell’isolamento: unica soluzione efficace per provare a sbarrare il cammino del morbo. Alle navi si vietava l’ingresso in porto, gli appestati erano chiusi nei lazzaretti. In una società globale l’unica soluzione è la riduzione maggiore possibile dei rapporti diretti tra le persone, tutte virtualmente suscettibili di contagio attivo o passivo. Nella sua versione moderna ecco qui l’universalità del lazzaretto virtuale. Ma c’è poco da lamentarsi. Il blocco era necessario. Tanto più se si considera che molti pazienti hanno continuato a morire perché contagiati con ogni evidenza a blocco già iniziato da tempo. Se il contagio si insinua anche nei varchi lasciati dall’impossibilità dell’isolamento totale è facile intuire la dilatazione del numero dei decessi che gli esperti di statistica ci prospettano nell’eventuale assenza del blocco. Alla fine misure più restrittive sono state adottate anche da chi all’inizio aveva teorizzato la diffusione epidemica come mezzo per ottenere l’immunità di gregge, mettendo nel conto una ragionevole mortalità. C’è dell’ironia nel fatto che lo stesso Boris Johnson sia stato a un pelo dal restarne vittima. Insomma anche i liberisti hanno dovuto ammettere che per continuare a far soldi bisogna almeno restare vivi.

L’esclamazione “siamo in guerra” della dottoressa o dell’infermiera, che ha lavorato tutti i giorni senza fermarsi per quattordici ore, è più che giustificata nel reparto assediato dal virus, ma fuori dall’ospedale pone un problema di natura costituzionale. Lo stato di guerra è deliberato dal Parlamento secondo l’articolo 78; ma lo stato di emergenza non esiste in Costituzione. Voci autorevoli (Cartabia, Zagrebelski) hanno sentito la necessità di spiegare che il motivo essenziale dell’assenza è che la Carta contiene in sé tutte le linee guida necessarie per fare fronte all’emergenza eccezionale e anche per dosare la qualità degli interventi. In democrazia è un dovere civico per i cittadini essere sensibili alla questione della legittimità costituzionale dei provvedimenti governativi. Ma chi, come Salvini e Renzi, pone ora la domanda, lasciando capire fin dall’inizio che la legittimità non c’è, sembra intenzionato non ad affrontare la complessità della discussione ma a invocare la semplice necessità della caduta del governo; e possibilmente il successivo rituale per la sua sostituzione. Strumentale a questo fine appare anche il loro tardivo richiamo a una maggiore e più incisiva presenza del Parlamento. In realtà se la si voleva assicurare davvero bastava non adottare all’inizio l’eccesso di salvaguardia delle due Aule. Medici e infermieri, per settimane privi dei più elementari mezzi di autodifesa, hanno continuato a garantire con gravi perdite l’assistenza ai malati. Da parte sua il Parlamento per non farsi bloccare dalla pandemia ha deciso di bloccarsi da solo e si è accomodato a svolgere sedute a ranghi decimati solo per votare i provvedimenti del governo. E’ vero: il presidente del consiglio si rivolge prima in televisione e solo dopo alle Camere, ma esse hanno stabilito di vivere questo periodo, così intenso e concitato, praticamente a mezzo servizio e in funzione ancillare. Chi critica il solipsismo del governo, del consiglio dei ministri e del suo presidente, dovrebbe spendere una parola sull’originaria inerzia del Parlamento.

La pandemia ci pone interrogativi incalzanti. Alcuni rivolti al passato: si poteva bloccare prima la diffusione, evitare il contagio nelle case di riposo, proteggere meglio e fin dall’inizio medici e infermieri? Altri al futuro: quanto può resistere nell’immobilità una società che non può stare ferma? Che cosa significa il ritorno alla normalità? La nostra meta è tornare a fare le cose di prima nello stesso modo di prima?

Il principio costituzionale dell’uguaglianza, sempre oscillante tra aspirazione e negazione, sempre offeso dalla realtà economica e sociale, è messo alla prova anche dal coronavirus. Per le antiche pandemie i demografi si erano posti il problema dell’uguaglianza di fronte alla morte. Ci sono racconti che illustrano come i ricchi e potenti, in possesso dei mezzi per fuggire, cercassero salvezza altrove e potessero soccombere al morbo proprio dove non se l’aspettavano. ‘A livella della morte era forse abbastanza egualitaria. In fondo anche Don Rodrigo viene falciato dalla peste. Chissà se il bilancio definitivo della mortalità sarà letto anche sotto questo profilo? Ma in vita la pura e semplice esperienza del blocco si vive secondo disuguaglianza: essere chiusi in villa o in sessanta metri in periferia non è proprio la stessa cosa. Ci vorrebbe Balzac per dipingere a tinte efficaci la quarantena. Il coronavirus fin dai suoi primi passi ha colpito in modo più severo i lavori precari e i bassi redditi. La stasi economica ha come conseguenza istantanea licenziamenti e disoccupazione. Ciò genera una curiosa contraddizione. Nel fervore dell’emergenza il senso comune riscopre la necessità dell’empatia, la confortante unità dell’impegno collettivo. Ma prima ancora che l‘emergenza venga meno ecco che la disuguaglianza riprende il comando della situazione. Lo si vede fino nei singoli particolari. Ad esempio la riapertura delle scuole, oltre a porre robusti problemi organizzativi, mette in evidenza la necessità per le famiglie a basso reddito di mandare i figli a scuola per poter tornare al lavoro; urgenza che non tocca tutti i ceti nello stesso modo. E per di più il lavoro nel contesto di crisi non potrà che essere ancora più precario e meno pagato. Il lavoro on line, imposto dalla necessità, trova sempre più convinti sostenitori per il futuro tornato normale. Non è difficile prevedere come la modalità da remoto servirà a rendere remoti i diritti di chi lavorerà staccato da qualsiasi possibilità di azione collettiva. Sotto la forza coercitiva del mutamento si riaffaccia una mai scomparsa mentalità. Quando all’epidemia seguiva la carestia, lo storico illustrava “la paura dei poveri di morire di fame e la tentazione dei ricchi di approfittarne”. Non c’è la carestia alle porte, ma quanti, dal singolo operatore di Borsa alle agenzie di rating, si stanno muovendo per una redistribuzione sempre più diseguale del reddito? E per opporre difficoltà crescenti a chi vuole impedirlo?

Non torniamo a fare le cose di prima, allo stesso modo di prima. Per esempio il rapporto pubblico-privato. Per qualche decennio il pubblico è stato sinonimo di spreco e inefficienza, mentre si sosteneva che il privato garantiva sì profitti privati ma anche ampi vantaggi sociali. Vari specialisti di sicuro in questi giorni staranno scrivendo saggi analitici sul tema ma intanto tutti abbiamo toccato con mano come, per esempio, la sanità privata convenzionata sia sorretta da finanziamenti pubblici sottratti alla sanità pubblica: uno dei tanti campi in cui si realizza la storica saggezza del capitalismo italiano: privatizzazione dei profitti e socializzazione delle perdite. L’esperienza sferzante del coronavirus ci libererà dalla supremazia teologica del privato (fasullo)? O finita l’emergenza che ci ha confermato la necessaria centralità del pubblico tutto sarà dimenticato e si tornerà alla retorica del privato?

Sui giornali è ormai un coro di cui non si può che essere soddisfatti: bisogna smettere di far mancare finanziamenti vitali a istruzione, università e ricerca. Benissimo, lo sforzo deve essere robusto perché recuperare lo svantaggio accumulato dalla micidiale sequenza Berlinguer-Gelmini richiede il massimo dell’energia e dei soldi. Siamo realisti: si tratta di riconquistare la pura normalità. Dei centri di eccellenza autocertificati non sappiamo che farcene. La Scuola di Pisa non si chiamava Normale?

Centri storici deserti, strade e piazze vuote, musei chiusi, negozi e locali sbarrati ci ricordano che fino a poco tempo fa un settore portante dell’economia italiana era il turismo. I beni culturali e paesaggistici erano i nostri “giacimenti culturali”, espressione che fa rabbrividire, ma sempre meno dell’altra formula più brutale: il “nostro petrolio”! In nome di questo petrolio i proprietari di immobili nei centri storici avevano spinto fuori i residenti locali per destinare volumi crescenti alla residenza passeggera dei turisti. Gli appartamenti erano stati trasformati in una moltitudine di mini locali destinati all’affitto per brevissimi periodi. L’invasione dei bed and breakfast per il turismo di massa induceva una metamorfosi degli esercizi commerciali, uniformati alle nuove esigenze. Via l’artigianato vero, via vecchie librerie e farmacie. Via, possibilmente, tutto. Il centro a una sola dimensione: a misura del turista mordi e fuggi

Una nuova prassi urbanistica aveva cominciato a considerare la città nel suo complesso come una risorsa su cui intervenire con tutta la potenza della chirurgia edilizia. Così la salvaguardia del patrimonio storico era garantita solo per l’apparenza esterna: le facciate degli edifici potevano essere ridotte a quinte teatrali; al loro interno si concedeva la possibilità di svuotare anche del tutto gli interni per ricostruire secondo il fine principale: disporre di una massa di turisti auspicabilmente incalcolabile, da alloggiare, sfamare, divertire e far ripartire in una sequenza infinita di turni. Unica alternativa: sempre lo stesso svuotamento orientato però alla cattura del turista in grado di pagare scenari residenziali di lusso. Fino a pochi giorni fa venivano perfezionate con la complicità degli enti locali operazioni di svendita di straordinari patrimoni edilizi pubblici. Ora la scena urbana è vuota e non si sa quando tornerà a riempirsi. Gli aeroporti che erano al limite della saturazione sono quasi fermi. Nel prossimo futuro il distanziamento tra gli individui ridurrà il numero dei passeggeri e aumenterà il costo dei voli. La risposta degli amministratori locali è involontariamente ironica: non vogliono più il turismo di massa ma solo il turismo “di qualità”. L’espressione potrebbe suggerire raffinate piccole compagnie in contemplazione di capolavori poco conosciuti in chiesette fuori mano ma forse il significato è più prosaico: meno turisti ma più danarosi. Viene da chiedersi: i meno danarosi dove dovrebbero andare? Non sarebbe più ragionevole ammettere che la fame di turisti è destinata per un po’ di tempo a restare insaziata? Abbiamo così l’occasione di ridare alle città la pluralità culturale che dovrebbe essere loro connaturata. Come? Discutiamone.

Un altro tema che si è imposto nella lotta alla pandemia è il rapporto stato-regioni. Inutile qui ricordare i contrasti ripetuti. La questione principale è il regionalismo differenziato (eufemismo per potenziato) che le regioni del Nord, seguite dall’Emilia e Romagna, volevano a tutti i costi. Ragione vorrebbe che l’esperienza vissuta negli ultimi mesi basti a eliminare la questione. Ma la tenacia con cui in particolare la Lombardia ha usato qualsiasi occasione per rafforzare la polemica col governo centrale sembra invece il segno di un’intenzione a voler insistere sul tema. E’ anche vero che la stessa insistenza è prova di debolezza: una regione che rivendica la più estesa delle autonomie non può continuare a chiedere aiuto allo stato centrale senza svelare di non avere le forze necessarie all’esercizio della propria volontà. Insomma: No al regionalismo differenziato. Sbagliato sotto il profilo costituzionale e nocivo sotto il profilo sociale.

Nei giorni del massimo affanno e poi in molte sintesi riassuntive sui modi per uscirne ha avuto molto ascolto la ricetta ”liberarsi della burocrazia”. Sabino Cassese ha già ricordato che l’operato della burocrazia è figlio delle leggi e le leggi le fa il Parlamento, cosa che si tende a dimenticare. Su questo lato non c’è nulla da aggiungere. Ma non si può trascurare un altro aspetto. Liberarsi degli impicci inutili e controproducenti è aspirazione ragionevole. Ma si capisce bene che i massimi sostenitori della ricetta pensano a un altro orizzonte. Per loro liberarsi della burocrazia significa sospendere i controlli di legalità, le verifiche sulla compatibilità ambientale e paesaggistica delle opere. Per loro è già tutto compatibile, se non altro coi loro guadagni privati, e soffrono l’idea stessa che sia necessaria una verifica. La stessa vicenda del ponte crollato a Genova è diventata l’occasione per chiedere la diffusione territoriale delle deroghe. Ogni sindaco sogna: avessi i poteri del sindaco di Genova quante cose farei! La grandiosità e la velocità dell’opera, qui in funzione del più celere ripristino, fanno immaginare che la stessa eccezionalità sia adottabile anche per altre opere ancora inesistenti ma da costruire a tutti i costi. Senza burocrazia vuol dire senza bastoni legali tra le gambe dei promotori. In realtà l’Italia è già piena di opere inutili, di zone industriali vuote da anni, di infrastrutture lasciate a metà, di ospedali abbandonati. L’Italia non urbana è ormai una campagna urbanizzata male, in funzione del vantaggio e dell’utile privato, entrambi miopi, e nella trascuratezza abituale verso la vera utilità pubblica.

Ogni terremoto, ogni alluvione aggiunge macerie e danni. Lo sguardo d’insieme sulle aree colpite da sismi negli ultimi anni svela un panorama desolante. E nello stesso tempo stupefacente. Ci sono zone nell’Appennino dove, a pochi chilometri dai crolli irrimediabili, stanno ancora in piedi cinte murarie e torri che nel loro stare lì in silenzio interrogano l’incredulità del passante. Ma, nei territori più diversi, una pioggia più intensa del solito fa franare versanti e esondare fiumi. Quale lavoro sarebbe più utile di quello destinato a restaurare con sapienza l’assetto fisico del territorio? Questa è l’unica vera grande opera cui dovremmo dedicarci. Ma è un capitolo che richiede una vocazione speciale.

La consapevolezza del danno inferto ha coniato il concetto di “Diritti della natura”. E’ senza dubbio una bella espressione ma a seconda di come è intesa rischia di risultare ingannevole. La natura, lo sapeva già Lucrezio, non è fatta a beneficio dell’uomo. Non è per noi che…Nella splendida scena naturale che ci circonda non c’è nulla di finalistico, nulla di predestinato a nostro vantaggio. La natura è impassibile e spietata. Gli oceani sono rimescolati dalle correnti; l’atmosfera dai venti. I vulcani eruttano. L’erosione consuma le montagne e colma le pianure. Le specie vegetali sono, in assenza umana, distribuite dal clima. Le specie animali si nutrono dei vegetali e di sé stesse. In nostra assenza la natura non ha bisogno di diritti: la natura è. Quando parliamo di diritti della natura in realtà pensiamo al nostro dovere di non offenderla, di non infliggerle danni irreparabili. Questo atteggiamento può sembrarci pensoso e altruista ma in realtà ha un solido fondamento realistico: i danni che possiamo infliggere alla natura saranno di sicuro più irreparabili per noi che per la natura nel suo insieme. L’egoismo di specie, adottato come guida razionale, dovrebbe indurci a smettere di esercitare il danno. Solo in questo modo potremo godere il diritto a una natura non avvelenata, non minata nei suoi caratteri per noi benigni. Da parte sua la natura solo in qualche migliaio di anni potrebbe assorbire, metabolizzare, occultare qualsiasi effetto lasciato dalla presenza umana dopo la sua eventuale scomparsa. Non tornerebbe sui suoi passi, evolverebbe verso equilibri ecologici e predatori per noi incogniti. In assenza dell’uomo il diritto non avrebbe più alcun senso. Di fronte alla prospettiva del fallimento dell’esperienza umana, già oggi gli etologi potrebbero dolersi di non assistere all’affascinante inedita dialettica tra le specie viventi. Tuttavia “diritti della natura” risuona alla mente umana come un’espressione di sapienza antica. La sapienza dell’uomo “primitivo” ben consapevole dell’inviolabile unità del vivente, tanto da indursi a chiedere perdono alla preda colpita e a escogitare espedienti magici per ottenerlo. I “diritti della natura” si presentano ora di fronte all’uomo distruttore come il fantasma benevolo del mondo che egli ha avviato a un destino, forse ancora non del tutto inevitabile, di rovina non della natura ma di sé stesso.

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