Pace e guerra in Ucraina

di Pancho Pardi - 16/08/2025
Un contributo alla discussione in Salviamo la Costituzione e nel CDC

Lo smisurato massacro nella terra di Gaza, compiuto con freddezza sistematica sulla base del principio che l’eliminazione di un terrorista giustifica la morte di decine e decine di civili, ha forse superato la cifra di 50.000 vittime ed è una plateale violazione del diritto internazionale. La distruzione urbana senza limiti la testimonia con un deserto di detriti cementizi apocalittico. E in quel deserto vaga una popolazione priva di sostegno alimentare e sanitario alla ricerca dei luoghi dove sia meno probabile il prossimo bombardamento. Nel mondo dell’informazione si dà ormai per scontata l’intenzione del governo Netanyahu di spianare Gaza per annetterla e di incrementare gli insediamenti in Cisgiordania allo stesso fine. Lo schieramento pacifista è fermissimo nel sostegno alla causa palestinese, ma non ha pari attenzione per la guerra subita dall’Ucraina, nella popolazione e nel territorio.

L’invasione dell’Ucraina ha prodotto dopo iniziali condanne uno sforzo continuo e crescente nell’opinione pubblica di sinistra per sgravare la Russia dalle sue responsabilità (rese più gravi dal suo ruolo di membro permanente del Consiglio di Sicurezza dell’ONU) e addebitarle all’occidente bellicista. Poiché non si poteva negare la paternità russa dell’invasione si è presto cominciato a retrodatare l’inizio della guerra. L’invasione dunque appare non come l’inizio ma come fase recente e attuale di una guerra cominciata molto prima. E la sua origine non è russa ma nasce dall’occidente che ha macchinato conflitti contro la Russia. La guerra russa è cominciata nel 2022 ma la guerra “americana” molto prima. Quando? Alla ricerca del casus belli il passato viene rivisitato a piacere. Gli anni e i decenni precedenti perdono la loro consistenza processuale, dinamica, contraddittoria, storica e diventano una piatta lavagna su cui segnare l’evento che ha scatenato il tutto.

I moti di Maidan del 2014 sono così individuati come il vero inizio della guerra. Moti popolari confusi (c’è moto popolare che non lo sia?) sfociano nella cacciata del presidente Yanukovicz, eletto anche sulla base delle sue promesse di avvicinamento all’Europa, poi smentite dalla sua prassi filorussa. Moti popolari, secondo la tesi, sobillati dai servizi segreti atlantici: un colpo di stato che costringe il presidente a rifugiarsi in Russia. Così la guerra non è dichiarata ma è in atto. E, attenzione, la mossa successiva è rivisitata come una conseguenza del primo atto: la Russia con truppe senza mostrine e bandiere invade rapidamente la Crimea e la annette in seguito con un referendum farsa senza controllo internazionale. Il ragionamento capzioso non si pone problemi. La cacciata del presidente eletto vale l’annessione della Crimea? Non c’è evidente sproporzione tra un evento della lotta politica interna alla repubblica ucraina e la sottrazione di una regione strategica a uno stato sovrano? Se si ragiona in termini di complotti dovrebbe poi risultare più convincente l’ipotesi opposta: un complotto russo per poter invadere la Crimea! Ma no, Maidan è un colpo di stato ispirato dall’occidente e l’inizio della guerra contro la Russia. Nei mesi successivi la Russia fomenta scontri in Donbass e anche lì appaiono gli “omini verdi” soldati russi senza mostrine. Ma la necessità di accreditare la versione della Russia aggredita enfatizza solo il ruolo attivo dei guerriglieri antirussi. Tutto il resto non c’è, o non si vuole vedere. Il Donbass diventa la camera d’incubazione dell’invasione nel 2022.

Ma nasce una domanda: perché risalire solo a Maidan? Non conta nulla ciò che è successo prima? E il prima da quando bisogna farlo partire? Maidan è del 2014. La caduta del Muro è nel 1989, lo scioglimento dell’URSS nel 1991. Tutto ciò che è accaduto dal 1989, dal 1991 non conta nulla? Dalla caduta del Muro al 2014 passano 25 anni, dallo scioglimento dell’URSS 23 anni: più della durata del fascismo, quasi il doppio del nazismo! Anni insignificanti? Basta darci un’occhiata dentro per cogliere processi assai più significativi di Maidan 2014. Se si deve tornare indietro allora bisogna farlo sul serio. Nell’anno successivo al crollo del Muro tutti i paesi del Patto di Varsavia si separano dall’URSS e si volgono, in vari modi, all’Europa. Nell’anno successivo allo scioglimento dell’URSS le repubbliche ex- socialiste sovietiche a ovest della Russia fanno lo stesso cammino. Già prima del crollo del Muro i paesi baltici avevano battuto un colpo con la loro catena umana di due milioni di persone strette per mano a collegare le tre capitali. Qui risparmio l’elenco che ognuno può fare da solo, ma anche sillabare uno dopo l’altro tutti i paesi dell’una e dell’altra alleanza socialista che mollano la Russia, assai prima di qualsiasi avance della Nato, esprime l’enormità del rivolgimento. A Mosca resta fedele solo la Bielorussia. Il collasso dell’URSS ha privato di colpo la Russia del suo impero sul fronte occidentale. Questo è il vero, autentico e unico fondamento dell’aggressione russa all’Ucraina. E responsabile non è l’occidente: è il crollo dell’URSS. Di cui la Russia era per riconoscimento unanime Stato Guida. A ragione Putin sostiene che il crollo dell’URSS è stata la tragedia geopolitica più gigantesca del novecento. Ma la responsabilità deve cercarla soprattutto in Russia. La sinistra italiana ha ragionato sul crollo del socialismo reale quasi esclusivamente per chiedersi se era necessario cambiare nome al Partito Comunista, ma non si è mai davvero chiesta perché tutti quei paesi in breve tempo hanno voltato le spalle a Mosca. E non è certo una risposta seria sostenere che causa sono le mene della Nato. Che cosa dovevano fare i paesi del Patto di Varsavia, e che cosa le repubbliche ex socialiste sovietiche? Continuare a credere nella Russia? Ricostruire una soggezione di cui volevano liberarsi? Confidare nello Stato Guida degradato dall’assenza di una classe dirigente e fiaccato da un’economia disastrata? Avviata a un capitalismo oligarchico e gangsteristico? E chiaro che non vedevano l’ora di andarsene, l’hanno fatto e non torneranno mai più. Perfino Ungheria e Slovacchia, quinte colonne di Putin, si guardano bene dal lasciare la comoda collocazione europea, dove possono lucrare sul ruolo di bastian contrari. Sostenitori ipocriti di Putin da fuori, ma per carità non alleati in soggezione dentro.

 

Primo decennio, 1991-2000

Il primo decennio, fino al 2000, è per la Russia di Eltsin apprendistato caotico verso la democrazia e il capitalismo. Crisi economica, diffusione della povertà estrema, appropriazione privata delle grandi imprese pubbliche, affermazione dei monopoli oligarchici, malcontento popolare. Viene sperimentato l’adagio inventato da un economista russo: passare dal capitalismo al socialismo è come passare dalle verdure al minestrone, ma passare dal socialismo al capitalismo pone le difficoltà di ricostruire le verdure dal minestrone. Ma in una diffusa pubblicistica di sinistra in Italia, perfino i disastri del decennio di Eltsin nella transizione dal socialismo al capitalismo vengono attribuiti non allo sfascio ereditato dal collasso del socialismo reale ma ai Chicago Boys subentrati, si dice, nella guida dell’economia. In questa visione apologetica i russi non sono mai responsabili di niente, nemmeno dei loro più teatrali fallimenti. La colpa è sempre di qualcun altro. C’è tutto un filone polemico che vede l’origine del degrado russo nelle promesse mancate verso Gorbaciov. Non c’è dubbio che Gorbaciov fosse assai più simpatico, e per molti più meritevole di credito di Eltsin, ma nessuno si è mai chiesto quanto abbia contato per l’occidente scoprire che Gorbaciov non aveva più il sostegno né del partito né dell’esercito. Si può basare una politica estera sulla simpatia? Nel contesto fallimentare l’unica struttura coriacea e resiliente è il KGB, come dimostra la sorniona ascesa di Putin, con l’aggiunta teocratica di Kirill.

Nello stesso decennio, in un analogo apprendistato democratico si succedono in Ucraina elezioni frequenti, con capovolgimenti di alleanze governative. Dal nostro osservatorio lontano si fatica a ricordare i nomi delle figure di vertice innalzate e sostituite. C’è un solo carattere comune tra Russia e Ucraina: nella dialettica tra legislativo ed esecutivo si afferma in entrambi i casi la supremazia del governo sul parlamento e poi del presidente sul governo (la malattia del presidenzialismo sembra attecchire ovunque). Ma ciò non impedisce in Ucraina (niente affatto in Russia) il frequente avvicendamento dei governi e delle presidenze.

Nel primo decennio si colloca il dimenticato Memorandum di Budapest (5.12.1994). L’Ucraina aderisce al trattato Start di non proliferazione delle armi nucleari di Lisbona 23.5.1992, e consegna il proprio arsenale nucleare (terzo al mondo) alla Russia. Col Memorandum USA, Russia, Regno Unito garantiscono all’Ucraina indipendenza e sovranità entro i confini dell’epoca. Venti anni prima di Maidan 2014 Crimea e Donbass erano territorio ucraino intoccabile. I confini vengono confermati dal trattato di amicizia russo-ucraino del 1997, e ulteriormente confermati dal trattato sui confini stabilito tra Kuchma e Putin nel 2003, 11 anni prima di Maidan. Dell’arsenale nucleare l’Ucraina aveva in realtà solo il controllo fisico ma non operativo, che era sempre rimasto in mano alle autorità russe. Tuttavia la cessione aveva un forte e duplice significato simbolico. L’Ucraina, in una fase in cui apriva relazioni con l’Europa, mostrava di non aver interesse a brandire l’arma nei confronti dell’occidente. I tre paesi garanti prendevano l’impegno di salvaguardare la sua integrità e indipendenza. E’ curioso invece che la stessa adesione al trattato Start di Lisbona non fosse d’ostacolo alla Russia nel ricevere l’arsenale conferitole dall’Ucraina. In seguito la Russia ha sostenuto che la validità del Memorandum, mai ratificato, e degli altri trattati era cessata a causa della decisione ucraina di abolire nel 1995 la Costituzione della repubblica autonoma di Crimea del 1992. La Russia ha poi sostenuto che dopo i fatti di Maidan l’Ucraina non era più lo stesso stato che aveva firmato il Memorandum, e quindi l’impegno non era più valido. Va anche detto che né gli USA né il Regno Unito si sono sentiti vincolati dal Memorandum a garantire l’Ucraina quando la Crimea è stata invasa nel 2014. L’occidente, accusato dalla sinistra di essere sempre all’offensiva contro la Russia, ha in realtà adottato nei suoi confronti una larga tolleranza, giustificata forse con la prospettiva di poter coinvolgere la Russia nella globalizzazione capitalistica. Questa speranza poteva essere fondata, nei primi anni del decennio precedente, sul fotoromanzo berlusconiano di Pratica di Mare (il G8 con Putin), ma già la seconda guerra cecena avrebbe dovuto far svanire tutte le illusioni. La presa della Crimea, con l’invasione di uno stato sovrano, doveva far scattare un allarme di cui non si è visto segno.

Nel primo decennio, mentre l’Ucraina affronta con la sua prima democrazia, invischiata nei e dai poteri oligarchici, le difficoltà del mercato capitalistico, la Russia riscopre la guerra. La prima guerra cecena, fallimentare, aggrava il disagio di un enorme esercito già logorato e sconfitto dalla lunga guerra afghana. Alla fine del decennio Eltsin spossato cede il posto a Putin e il secondo decennio si apre con la seconda guerra cecena. Nel cuore del secondo decennio Putin, che nei primi anni per tattica aveva flirtato con l’occidente, rivela con la massima chiarezza l’obbiettivo storico di ricostruire la dignità imperiale della Russia. Nella sua dichiarazione di Monaco c’è tutta la sua futura politica di revanche per la riunificazione dei russofoni, ovunque siano. Ma è pura retorica propagandistica: ciò che gli preme è riavere il cuscinetto dei satelliti. Le repubbliche ex-socialiste approdate in Europa sono avvertite. La Russia non tollererà per sempre di non avere sul suo fronte occidentale una cintura protettiva di territori satelliti. La guerra lunghissima in Cecenia e la guerra lampo in Georgia (2007) sono per ora esempi dimostrativi. Niente tolleranza per l’insubordinazione al Kremlino.

 

 

Apprendistato democratico in Ucraina

Nell primo decennio dopo il 1991 la scena politica postsovietica è ampiamente dominata da clan oligarchici incardinati su base territoriale. I primi due presidenti, Kravcuk e Kucma, ne sono espressione esplicita. I clan sono molti e differenziati ma il confronto principale si svolge tra le due polarità del paese: l’occidente e il centro orientati verso l’Europa e l’oriente verso la Russia. E anche quando i primi due personaggi sono superati da nuovi protagonisti la logica essenziale della competizione rimane la stessa. I brogli elettorali sono all’ordine del giorno. Ancora nel secondo decennio, nella fase cosiddetta della rivoluzione arancione, il testa a testa tra Janukovyc e Juscenko nelle elezioni del 2004 è espressione di un confronto senza esclusione di colpi tra il clan orientale filo russo del Doneck e il clan dell’Ucraina occidentale (qui in evidenza il Partito delle regioni di Julia Timoscenko, la signora bionda con la treccia più tardi inquisita e processata per corruzione). Tutti i mezzi utili al broglio elettorale sono messi in atto e tutti gli artifici del trasformismo si manifestano: Janukovjc, sostenuto apertamente dai russi e in prima persona da Putin, conosce bene la consistenza elettorale dell’avversario, e gli propone di accettare la nomina a presidente del consiglio. Questi rifiuta e solo la Corte Suprema, più indipendente di quanto si pensasse, annulla il secondo turno e lo fa ripetere, permettendo così alla fine la vittoria di Juscenko. Vittoria numerica netta ma tutt’altro che definitiva perché poi anche la coalizione arancione perde presto la propria compattezza ed efficacia. Le elezioni semitruccate del 2004 aprono la stagione di Maidan, perché proprio nella grande piazza di Kiev si raduna nell’inverno del 2004 una folla enorme, mai vista prima, per protestare contro i plateali brogli elettorali che avevano attribuito la vittoria nel secondo turno a Janukovjc. Consistenza e durata dei clan oligarchici sono confermate dieci anni dopo dalla presenza sempre di Janukovjc nel ruolo di presidente della repubblica, rovesciato in quell’anno dai nuovi moti di Maidan. L’avvelenamento nel corso del 2004 di Juscenko tramite diossina (che lascerà su di lui tracce permanenti) annuncia l’introduzione di un modus operandi che diventerà tradizione culturale nell’operato dei servizi russi; i casi più noti: Litvinenko nel 2006, Naval’nj nel 2024.

Un punto che unisce le esperienze postsovietiche in Russia e Ucraina è, si è detto, la prevalenza del potere esecutivo sul legislativo e il primato del presidente della repubblica sul presidente del consiglio. Un punto che le distingue con forza è la durata delle cariche. In Russia un decennio per Eltsin e un quarto di secolo, ormai superato, per Putin, con la sospensione strumentale della presidenza Medvedev. In Ucraina, al contrario, le cariche di vertice hanno la brevità tipica della vita democratica: voto frequente, non di rado anticipato, alternanza delle coalizioni e dei loro vertici. E’ esemplare e paradossale l’insistenza di Putin sull’illegittimità della durata in carica di Zelenskj, prodotta dalla guerra che lui stesso gli ha mosso contro!

 

Guerre cecene.

C’è una profonda differenza tra la prima e la seconda; la prima sotto Eltsin (1994-96), la seconda sotto Putin (1999-2009). Nella prima l’esercito russo già fiaccato dalla sconfitta e dal ritiro dall’Afghanistan non riesce a cogliere successi nella regione caucasica e va incontro a sconfitte umilianti, il cui peso non è indifferente nel minare la tenuta personale di Eltsin. Nella seconda, con durezze inaudite, l’esercito russo ricostruisce la possibilità della vittoria; a quale prezzo lo racconta Anna Politkovskaja (La Russia di Putin, Adelphi 2005). Molti dubbi permangono sugli episodi di terrorismo ceceno che fornirono al governo russo la giustificazione della risposta bellica. Non sono mai stati smentiti in modo convincente i sospetti su iniziative del servizio segreto russo (ex KGB ora FSB) nella sequenza degli attentati ai condomini di periferia. E anche quando non vi sono dubbi sugli autori, come nel sequestro della scolaresca a Beslan, risulta evidente, nella cronaca di Politkovskja, la volontà governativa di evitare la trattativa e concludere con una strage, la cui spettrale realizzazione vale come ammonimento ultimativo. Ma al di là dei dubbi sulle origini del terrorismo “islamico”, di facile presa sull’opinione pubblica russa, resta il fatto che la Cecenia è una regione interna della federazione russa e così le rimostranze diplomatiche europee, per la verità timide e prive di convinzione, si scontravano con la risposta: non potete mettere bocca su fatti interni. Argomento che classicamente blocca interventi diplomatici esterni. Sotto questo profilo si può considerare come la seconda guerra cecena abbia costituito una duplice anticipazione della guerra all’Ucraina. Con essa, Putin ha riabituato la Russia alla guerra intesa come prova di energia nazionale. Il suo primo decennio, dal 1999 al 2009 , è stato un lungo apprendistato all’aggressività imperiale, esercitato su una popolazione tradizionalmente combattiva ma sprovvista, eccetto il coraggio spesso temerario, dei mezzi più elementari per fronteggiare un’offensiva di carattere industriale. Il secondo aspetto è proprio la volontà di considerare l’Ucraina non uno stato sovrano ma una regione interna al Russky mir di cui la Russia accampa il diritto di decidere liberamente la sorte. L’Ucraina come un’altra Cecenia. L’insistenza si potrebbe dire teoretica di Putin su questo tasto è rivelatrice. Perfino i suoi caratteri interni ricevono luce da questa logica: il nazismo intrinseco attribuito all’Ucraina è deviazione patologica dallo spirito della grande guerra patriottica di cui la Russia è la rappresentante più genuina. Poco conta che le file interne dell’esercito russo mostrino apertamente corpi interi di forze intimamente naziste: i traditori della causa cecena che si sono messi al servizio degli oppressori, i mercenari di Prigogin, oggi defunto e dimenticato (l’abbattimento dell’aereo è l’alternativa rumorosa all’avvelenamento) ma a lungo al comando di truppe impiegate nei compiti più ributtanti, come fucilare i soldati svogliati in prima linea. Già questo sarebbe motivo di confronto se solo gli osservatori benevoli di Putin volessero considerare la differenza sul teatro di guerra: ingigantiscono la renitenza alla leva dal lato ucraino senza rendersi conto che essa, a suo modo, è manifestazione di libero arbitrio, mentre non possono che tacere sulla fucilazione riservata a chi non vuole combattere sull’altro lato.

 

La guerra per procura

Sono così evidenti i motivi dell’aggressione russa che non varrebbe la pena di affrontare la favola retorica della guerra per procura se non fosse per la sua natura intrinsecamente falsificante. Per dimostrare che la guerra russa è in realtà la guerra americana alla Russia bisogna sostenere che l’Ucraina non combatte per sé ma per gli USA. Prima di tutto l’unica cosa che si vede in Ucraina è la guerra russa contro l’Ucraina: per ordine di Mosca sono i bombardamenti, le distruzioni, le morti civili. Non si vede la guerra americana contro la Russia: niente bombardamenti, distruzioni, morti civili. L’Ucraina si difende a stento. I missili americani e inglesi servono solo per intercettare i missili russi, e gli USA hanno negato più volte missili a lungo raggio in grado di colpire l’interno della Russia. Non vogliono trovarsi inguaiati, e questo fin dall’inizio, ai tempi di Biden. Quando per necessità di difesa l’Ucraina porta attacchi in territorio russo lo fa con fantasiosi mezzi artigianali. Per affermare che conduce una guerra per procura contro la Russia si dovrebbe sostenere che l’intero paese è in preda a un delirio autolesionistico di massa. L’Ucraina metterebbe a repentaglio la sua terra, la sua popolazione, le sue città, le industrie, l’agricoltura, tutto per la soddisfazione di fare un piacere agli USA! Quando questa brutta storia finirà, chissà quando, si dovrà andare non solo a contare i danni materiali incalcolabili (che la Russia dovrebbe pagare fino all’ultimo rublo, e invece li pagherà l’Europa, per procura?) ma a guardare la piramide delle età nella popolazione ucraina. Si dovrà misurare l’intaccatura delle classi di leva consumate e perdute. Quel taglio secco sul versante maschile, quel vuoto si ripercuoterà sulle nascite mancate degli anni successivi. Quale paese al mondo si farebbe male così in profondità solo per fare un piacere a un altro? Ci tocca sentire che i motivi russi della guerra sono esistenziali (e questa è già una confessione). E i motivi ucraini non lo sono? La teoria della guerra per procura non è solo falsa, contiene l’offesa dell’irrisione: questi cretini si buttano via per l’interesse altrui!

 

Vincere e perdere

La Russia ha visto preclusa la strada della vittoria fin dall’inizio del 2022 nei pochi giorni in cui è fallita l’operazione speciale consistente nel sequestrare Zelensky e sostituirlo con un governo fantoccio. Nel momento in cui l’Ucraina non si è arresa ha evitato la sconfitta. La violazione russa del diritto internazionale a danno di uno stato sovrano ha dovuto subire una plateale metamorfosi: poteva essere concentrata in un blitz krieg di poche ore, è dovuta diventare una guerra di attrito durata finora tre anni, così ingombrante da modificare l’intero assetto geopolitico mondiale. Era ed è tale la posta in gioco (l’invasione di uno stato sovrano) da ridurre secondo la mia opinione la questione di giustizia internazionale a un semplice doppio postulato: la Russia non deve vincere, l’Ucraina non può perdere. Le conseguenze di una vittoria russa e una sconfitta ucraina sono incalcolabili e riverberano su tutto il contesto europeo. Per capirlo basta pensare alla condizione dei paesi baltici in caso di una vittoria russa in Ucraina. Anche il più pacifista di noi se vivesse ai confini orientali di Lituania, Lettonia, Estonia sarebbe tranquillo? E lasciamo da parte la Polonia, ammaestrata dall’esperienza più volte ripetuta di vittima storica della Russia. Quando nelle nostre manifestazioni si vede lo striscione “La Russia non è nostra nemica” si dovrebbe chiedere a chi l’ha scritto se ha idea di quanti in Europa, anche con la migliore volontà, non possono avere la stessa opinione.

Una tesi molto diffusa nell’opinione prevalente nella sinistra italiana sostiene che l’occidente (l’Europa, la Nato) hanno impedito all’Ucraina la pratica del negoziato per incoraggiarla a combattere fino alla vittoria finale (sul cosiddetto negoziato di Istanbul 2022 si veda poco più sotto). Si lascia intendere che questa sia il completo rovesciamento del fronte e alla fine anche l’abbattimento del regime di Putin. Si lascia intendere che la resistenza ucraina abbia proprio questi obbiettivi. E siccome sono impossibili si consiglia all’Ucraina di rinunciare al proseguimento della guerra. Ma non si pretende la stessa cosa da Putin. E’ Putin che vuole fermamente proseguire la guerra ma si chiede a Zelenskj di rinunciarvi. E’ anche per questo motivo che la controffensiva ucraina dell’anno precedente è stata vissuta nella sinistra quasi come uno scandalo: finché era vittima prostrata l’Ucraina riscuoteva un po’ di carità pelosa, se si azzardava a controbattere veniva accusata di bellicismo. Non è mai stata rivolta la stessa accusa a Putin, bellicista primario. Ma siamo ancora ai margini della questione reale: che cosa può essere per l’Ucraina la vittoria? La pura e semplice garanzia duratura dell’integrità e dell’indipendenza, niente di più, niente di meno. Era ed è ancora in ballo l’esistenza di uno stato sovrano. Vittoria è l’affermazione della sua esistenza, la sua sottrazione all’aggressione altrui, la garanzia del suo futuro libero e autonomo. La Russia deve essere a convinta non ripetere l’aggressione. Come?

 

Russkj Mir e i suoi corollari. Maidan colpo di stato. Crimea. Donbass

Dove c’è un russo, lì c’è la Russia. I popolamenti russofoni al di fuori dei confini della Russia sono virtuale territorio russo e quindi, secondo Putin, destinati a essere riuniti alla patria. Non si può tenere separato ciò che deve essere unito. Basterebbe passare in rassegna nei secoli quante volte i territori orientali d’Europa hanno cambiato confine per ricavarne la totale arbitrarietà del Russkj Mir. La piccola Lituania è stata un impero che arrivava al Mar Nero; la Polonia ha avuto periodi di esistenza indipendente, anche se variamente tagliata, e periodi di cancellazione totale, come la divisione a metà tra Germania nazista e Russia comunista dopo il patto Molotov-Ribbentrop; l’Ucraina occidentale è appartenuta a lungo all’Impero Austro-Ungarico e in parte alla Polonia; i paesi caucasici si sono temprati nella resistenza agli invasori, ecc. Il punto di vista russo-putiniano sull’Ucraina è totalmente determinato dalla retorica del Russkj Mir. L’Ucraina non ha alcuna autonomia e indipendenza: è una regione interna della Russia e quindi come tale soggetta alla sua volontà. Sarebbe interessante mettere in rilievo in quali modi. Ad esempio durante il regime staliniano il criterio del Russkj Mir ha prodotto l’holodomor, la morte per fame di milioni di ucraini. E’ questo esercizio di volontà russa che Putin pretende di affermare. Si comprende così come un rivolgimento interno della politica ucraina, come i fatti di Maidan del 2014, possano essere stati interpretati come un colpo di stato ai danni della Russia.

La Crimea è un caso davvero speciale. Secondo la vulgata dominante viene “regalata” nel 1954 dalla Russia all’Ucraina per decisione dell’ucraino Krusciov. Tra le ragioni del regalo non doveva essere estranea l’idea di una compensazione per l’holodomor degli anni trenta. E anche il suo asserito carattere russofono dipendeva almeno in parte dalla deportazione staliniana dei tatari, prevalenti in Crimea e obbligati in Siberia, sostituiti da immigrati russi. Subito dopo l’annessione della Crimea, il criterio del Russkj Mir apre un altro fronte: il Donbass. Il suo carattere russofono dipende almeno in parte dall’immigrazione forzata di lavoratori russi lì insediati per motivi minerari. Ora essere russofoni giustifica l’insorgenza contro il governo di Kiev, fomentata da truppe irregolari, anche qui come in Crimea gli omini verdi. A plateale dimostrazione del comando di Mosca l’intervento dei nazisti ceceni in quel teatro di guerriglia e il missile russo sparato dagli insorti che abbatté l’aereo indonesiano in volo da Amsterdam. Anche sull’accordo di Minsk che doveva porre fine alla vicenda c’è una perenne falsificazione: la sua mancata applicazione viene attribuita tutta a Kiev mentre le responsabilità di Mosca erano altrettanto evidenti.

 

Negoziato di Istanbul

Per gli esperti del giornalismo internazionale è una balla. La sua enfatizzazione è largamente postdatata, mesi e mesi dopo l’evento, allo scopo di sostenere che l’Ucraina non voleva trattare e anzi voleva continuare la guerra fino alla vittoria finale. Il cosiddetto negoziato prevedeva l’affermazione indiscussa del punto di vista russo: disarmo dell’Ucraina, sua neutralità assoluta, niente ingresso in Europa, niente adesione alla Nato, garanzia russa sui confini territoriali ucraini (secondo lo stile del Memorandum di Budapest?). Un accordo capestro che consegnava inerme l’Ucraina a qualsiasi futura iniziativa russa. Putin ha sempre voluto questo. Ed è la stessa cosa che vuole ora e non gli basta nemmeno il cedimento assoluto di Trump per accettare un cessate il fuoco. Prima vuole il totale cedimento di Kiev. Tra l’altro come si fa a sostenere che l’Ucraina rifiutò il negoziato di Istanbul del 2022, se ancora oggi Putin rifiuta il negoziato e continua imperterrito la guerra?

 

La guerra asimmetrica

Colpisce l’indifferenza diffusa per la totale asimmetria del conflitto. L’esercito ucraino è un quinto di quello russo, a lungo rafforzato da truppe anomale e ora dall’aiuto coreano, su cui si è atteso invano un commento di sinistra. Ma soprattutto la Russia si riserva di bombardare qualsiasi parte del territorio ucraino, e sempre più gli insediamenti civili fino al confine polacco, mentre se l’esercito ucraino tocca il territorio russo ciò è definito sempre terrorismo. Non c’è bisogno di statistiche, ma le aspettiamo con ansia, per sapere che le vittime civili ucraine stanno nel rango dei grandi numeri mentre le vittime civili russe sono una quantità esigua. Le distruzioni di contesti urbani, industriali, infrastrutturali in Ucraina non sono paragonabili a quelli subiti dalla Russia. Si fatica a ricordare il crollo del teatro di Mariupol sopra i cittadini lì rifugiati perché mille altre immagini analoghe si sono sommate fino a farci perdere il conto. Le campagne ucraine sono letteralmente avvelenate dalla guerra, quelle russe sono pressoché intatte. La mortalità nelle truppe delle due parti ha peso assai diverso. La Russia manda a morire i suoi giovani asiatici senza troppa pena e risparmia con vivo senso di opportunità i giovani delle aree urbane principali. Le notizie di morte avvenuta si perdono nelle steppe. L’Ucraina si trova già in deficit: i giovani sono pochi e non tutti vogliono combattere. I mezzi coercitivi, illimitati in Russia, sono in Ucraina scarsi e di poca forza.

Una consuetudine ha sempre segnato l’attitudine mentale della sinistra, anche quando non risultava conveniente: stare dalla parte dei deboli contro i forti. Ora pare dimenticata questa virtù. E in un contesto tradizionalmente cattolico, sia pure di comodo, fa scandalo l’assenza di misericordia verso la popolazione aggredita. Ci si limita al cordoglio per le vittime di tutte le guerre ma in questo egualitarismo della pietà c’è un’ingiustizia profonda. Paradossale: siamo stanchi della guerra ucraina…noi! E gli ucraini?

 

Che cos’è?....

Che cos’è la Russia oggi? Basterebbe la durata della permanenza al potere di Putin per certificare che è una dittatura. Ventisei anni sono una cifra impressionante ma il quinto (!) mandato in corso scade nel 2030: Putin vuole raggiungere e magari superare Stalin. Ci sono elezioni ma ai possibili competitori è interdetta la partecipazione. Sono candidati al voto presidenziale personaggi ignoti e di dubbia caratura. Quando hanno carattere e personalità vengono assassinati come Nemcov a due passi dal Kremlino, o come Navalny ristretto in carcere. Potere assoluto e senza limiti e di durata ignota, attorniato formalmente da una nomenklatura anonima e priva di soffio vitale, sorretto da un’informale ma sostanziale inquadratura oligarchica che ha forse qualche potere di secondo grado, come una volta i boiardi al di sotto dello zar. Qui la selezione avviene a seconda dei casi o tramite morte procurata (gli oligarchi sono come i malati dell’ospedale nell’Ispettore generale di Gogol: “guariscono come le mosche”) o innalzamento per cooptazione. La Russia attuale è l’impero asiatico. Corretto da una permanente ispirazione neosovietica, riconoscibile nella ferrea struttura piramidale del potere, nel primato dell’obbedienza alla gerarchia, nel controllo totale dell’informazione (l’assassinio di Politkovskaya è solo il più noto), nell’arbitrio sulla vita dei singoli, nei riti pubblici, nelle parate militari. L’ispirazione neosovietica fa del suo meglio per dissimulare e compensare l’assenza del partito, scomparso con il crollo dell’URSS (problema storico-politico enorme: ignoro se vi siano analisi serie in merito). Ma Putin è impegnato a fare della Russia una convincente metamorfosi dell’URSS.

 

Trumputinismo in breve

L’irruzione di Trump sulla scena ha peggiorato le condizioni dell’Ucraina. Per generale ammissione nella stampa critica, con Biden l’occidente ha sempre fornito gli strumenti di difesa necessari in ritardo, col contagocce, in misura a mala pena sufficiente, lesinando o negando i mezzi più decisivi. Certo senza gli aiuti ricevuti l’Ucraina non avrebbe avuto scampo ma il sostegno occidentale ha consentito solo di contenere a fatica l’offensiva subita. Le basi da cui partono missili e droni russi continuano a essere fuori portata dei mezzi ucraini. Così Putin è libero di martellare a suo piacimento i territori ucraini nei punti vitali, con una cadenza lenta ma regolare che vuole apparire metodica e implacabile proprio di fronte alle “aperture” di Trump. E scopriamo oggi che la resistenza ucraina è basata in gran parte su risorse aeree proprie elaborate sotto il peso dell’emergenza. L’Ucraina si difende in misura non trascurabile con i droni costruiti in garage.

Mentre Biden nascondeva la prudenza negli aiuti con dichiarazioni da alleato vigorosamente sostenitore, Trump ha introdotto la figura dell’alleato controvoglia, con duplice effetto su Ucraina e Europa. L’Ucraina sull’orlo della penuria di armi, l’Europa di fronte all’obbligo di fornirle in sostituzione degli USA. Ma c’è un effetto letale aggiunto, il più temibile: il riconoscimento delle ragioni di Putin, la sua rivalutazione come partner internazionale (e perché no negli affari). Si profila tra i due l’intesa cordiale sul diritto allo spazio vitale: per l’uno l’Ucraina, per l’altro la Groenlandia (e, perché no, il Canada). Trump pacifista a danno dell’Ucraina e dell’Europa. Sono state fatte facili e triviali ironie su Zelensky attore, ma ora si deve riconoscere che gli sono più che necessarie tutte le sue doti di scena per fronteggiare un alleato svogliato pronto a mollare, lusingarlo per non perderne l’aiuto nel momento in cui quello minaccia l’abbandono della causa, convincerlo che adottare le ragioni del nemico non è precisamente il modo migliore per affermare il proprio primato. Chi vorrebbe essere nei panni di Zelensky tra il martello e l’incudine? Tra i bombardamenti di Putin e la malavoglia di Trump? Ma si è capito alla fine che cosa voleva dire Trump quando sosteneva che con lui la guerra non sarebbe mai cominciata e che era pronto a chiuderla in 24 ore. Semplice: avrebbe concesso a Putin tutto ciò che voleva e avrebbe indotto l’Ucraina alla resa. Sta scoprendo adesso che non è così semplice. Essere presidente degli USA non rende onnipotenti.

 

Breve promemoria sull’opinione prevalente nella sinistra italiana

Sull’origine profonda della guerra mostra sostanziale identità di vedute con Putin: causa è l’aggressività occidentale. Ignorata l’aggressività della Russia: Russky Mir, guerre cecene. guerra lampo in Georgia, annessione della Crimea, guerriglia in Donbass (e l’invasione dell’Ucraina non sarà, secondo il linguaggio di Lavrov, un eccesso di difesa?)

Sul negoziato di Istanbul dà credito alla tesi della sua serietà e trascura del tutto che l’accettazione da parte ucraina avrebbe comportato una resa sostanziale.

E’ contraria all’invio di armi all’Ucraina, incurante di lasciare disarmato il paese aggredito mentre non può disarmare l’aggressore. L’invio di armi prolungherebbe la guerra, ma è la Russia tutta proiettata a prolungarla; impedirne il prolungamento significa solo impedire l’autodifesa all’Ucraina.

Sulle dispute territoriali concorda con la Russia: la Crimea era sostanzialmente russa e il Donbass non può essere ucraino

Sostiene la pace, ma alle condizioni di chi? Ammetterà che Putin è del tutto impermeabile alle ragioni della pace? Nemmeno Trump con tutte le sue concessioni lo ha portato al negoziato

Sintesi implicita, di rado messa a verbale. Era meglio se l’Ucraina si arrendeva il primo giorno: niente danni per lei, niente danni per noi europei. Dove nell’assenza di danno per l’Ucraina c’è l’evidente rimozione dell’imposizione del giogo russo dopo la resa. Ci si chieda perché nonostante tutte le conseguenze di una guerra del tutto asimmetrica gli ucraini non vogliano arrendersi, anche se Trump tirerebbe un sospiro di sollievo e pretenderebbe il Nobel (e la Groenlandia)…

 

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