8 marzo: cosa c’è da festeggiare?

di Barbara Fois - Liberacittadinanza - 07/03/2009
Quest’anno l’8 marzo, la Giornata internazionale della Donna, ha dei motivi in più – basta leggere le cronache di questo periodo – per essere celebrata, ma non certo festeggiata

Cosa abbiamo infatti da festeggiare? Le violenze ripetute, gli stupri, le discriminazioni, le mutilazioni, le diseguaglianze, le ingiustizie, che ogni giorno subiscono le donne, non solo qui, ma in tutto il mondo? In questo giorno noi donne ci scambiamo abbracci e mimose, ma molte di noi non sanno nemmeno cosa ci sia dietro questa data, dietro questa giornata, pensano che sia una festa frivola da passarsi in locali di strip maschile e molte nemmeno si rendono conto del ruolo gregario che hanno nella società e nel mondo.

Del resto le donne da migliaia di anni sono abituate a considerarsi delle persone di serie B: ci ha pensato bene la religione a inculcarglielo anche con la tortura e loro stesse insegnano ai propri figli maschi a non fidarsi delle ragazze - che sono tutte leggere e furbe e li vogliono incastrare - e li allevano nel privilegio del caffè a letto ed esimendoli dal rifarsi la stanza, magari affidata invece al lavoro delle sorelle. Se le mamme cominciassero a educare i propri figli tutti nello stesso modo, senza discriminazioni di genere, certamente faremmo un passo in avanti. Ma ovviamente non basterebbe. Il concetto di parità infatti va oltre l'uguale trattamento delle persone. Trattare in egual modo persone che si trovano in situazioni diseguali, significa perpetuare piuttosto che sradicare l'ingiustizia. Faccio un esempio: mandare in pensione le donne a 65 anni come gli uomini, non è un atto di uguaglianza, ma di ingiustizia. Infatti le donne che lavorano, tutte le donne, hanno un doppio impegno lavorativo: nel posto dove sono impiegate e a casa. Quindi lavorano ben più degli uomini e avrebbero dunque diritto ad andare in pensione prima. Ma questo aspetto evidentemente non conviene prenderlo in considerazione. Le donne vengono discriminate in tutto, perfino nei salari, ma in questo caso- poiché fa comodo - si tira fuori l’uguaglianza!!

 Le origini della Giornata Internazionale della Donna

 Vediamo insieme qualche data e fatto importante legati a questo appuntamento; la prima giornata internazionale della donna fu celebrata il 28 febbraio 1909 negli Stati Uniti e fu indetta grazie al Partito Socialista Americano. Evidentemente eravamo ben lontani dagli anni del “maccartismo” e della caccia ai socialisti e ai comunisti, di circa cinquant’anni dopo.

Nel 1910 si tenne la prima conferenza internazionale delle donne nell'ambito della Seconda Internazionale socialista, a Copenaghen “ nell'edificio del movimento operaio al 69 di Jagtvej la Folkets Hus (Casa del Popolo) chiamata poi "Ungdomshuset". Qui più di 100 donne rappresentanti di 17 paesi scelsero di istituire una festa per onorare la lotta femminile per l'ottenimento dell'uguaglianza sociale, chiamata Giornata internazionale della Donna. L'anno seguente, la giornata mondiale della donna segnò oltre un milione di manifestanti in Austria, Danimarca, Germania e Svizzera.

Il 25 marzo del 1911 ci fu l'incendio della fabbrica Triangle Shirtwaist Company, a New York, che uccise 160 lavoratori e dimostrò che l’alto numero di morti era dovuto all'insufficienza delle misure di sicurezza. Questo spostò l’attenzione sul tema della sicurezza sul lavoro, tema molto caro alle giornate internazionali della donna degli anni seguenti. Più tardi, all'inizio della prima guerra mondiale, le donne di tutta Europa tennero delle marce di pace l'8 marzo del 1913.

 Nel 1917 le donne russe scesero in piazza a manifestare: era il 23 febbraio del calendario russo (che corrisponde all'8 marzo del nostro calendario), per la morte di circa 2 milioni di soldati russi , caduti nella Grande Guerra. Le proteste continuarono per vari giorni fintanto che lo Zar fu costretto ad abdicare ed il governo dovette concedere il diritto di voto anche alle donne.

FOTO 1 suffragetta

I primi anni del secolo sono gli anni infatti delle battaglie femministe per il voto alle donne, che videro le suffragette inglesi e americane battersi con ogni mezzo e fino alla prigione e alla morte, per affermare il principio dell’uguaglianza dei diritti. Basta sfogliare quelle vecchie fotografie di donne trascinate per forza da baffute e imponenti guardie, per sentire un moto di orgoglio e insieme di pietà per quelle donne coraggiose, che sfidavano oltre le botte anche le beffe e gli insulti. Eppure è grazie a loro che oggi noi votiamo e che ci è riconosciuto un minimo di dignità e rispetto. Ma il mondo doveva passare attraverso l’inferno di un’altra guerra mondiale prima di ritornare alla democrazia e alla normalità del voto democratico.

 In Italia, nel 1946, insieme al voto alle donne, fu ripresa anche la giornata internazionale della donna, rilanciata dall'UDI (Unione Donne Italiane, associazione politica che raccoglieva nelle sue fila le donne del PSI  e del PCI). Furono proprio le donne dell’UDI ad associare alla festa dell’8 marzo il fiore della mimosa, fiore gentile e popolare, così come il garofano rosso era associato al 1 maggio, festa del lavoro.

 

FOTO 2  due donne con mimose, anni 50

 

In Europa la festa della donna nel secondo dopo guerra finì un po’ nel dimenticatoio, fino alla nascita del femminismo, nella seconda metà degli anni ’60. Sull’onda della lotta e dell’orgoglio femminista si fecero anche delle battaglie importanti nella storia civile del nostro paese, come quelle vittoriose per il divorzio e per l’aborto. La donna partecipa al ’68 con uno spirito nuovo, gioioso e creativo, pacifista e autoironico: gli slogan “tremate, tremate: le streghe son tornate” o “l’utero è mio e lo gestisco io”, al di là del messaggio perentorio e divertito, parlano anche di una presa di coscienza di sé e dei propri diritti, senza il tono melodrammatico delle suffragette, ma con un piglio decisamente più beffardo e sicuro di sé.

 

 

 

 

FOTO 3 la ragazza che fa il gesto femminista

 Il 1975 fu designato come 'Anno Internazionale delle Donne' dalle Nazioni Unite. A partire da quell'anno le Nazioni Unite hanno cominciato a celebrare la giornata internazionale della donna l'8 marzo. Due anni dopo, nel dicembre 1977, l'assemblea generale delle Nazioni Unite adottò una risoluzione proclamando una "giornata delle nazioni unite per i diritti della donna e la pace internazionale" che gli stati membri debbono osservare fissandola in un qualsiasi giorno dell'anno, seguendo le tradizioni storiche e nazionali di ogni stato.

L’impegno politico femminile ha continuato negli anni e i primi  “girotondi” italiani,  dopo il 2001 e la vittoria della destra berlusconiana, sono nati tutti dall’iniziativa di gruppi di donne. Il movimentismo è stato in gran parte organizzato e voluto da associazioni di donne, perché più che nei partiti – dove il maschilismo e la misoginia regnano sovrani – le donne trovano i loro spazi in organizzazioni meno sclerotiche e ammuffite, e più aperte alla creatività e alla fantasia. Del resto basta vedere il numero delle deputate nel nostro Parlamento o nei vari parlamenti regionali, per rendersi conto di come nei partiti non ci sia posto per le donne e di quanto siamo distanti dalla parità auspicata dalla nostra Costituzione.


Miti e leggende dietro questa data

Dietro la festa dell’8 marzo ci sono alcune leggende metropolitane. In modo particolare gira la voce che fu l’8 marzo di un anno imprecisato (alcuni dicono il 1857, altri il 1908) che delle operaie di una camiceria di New York, la ditta Cotton, morirono in un incendio, perché chiuse dentro dal padrone – un certo signor Johnson – che le voleva punire per uno sciopero che loro avrebbero cominciato, contro le condizioni inumane di lavoro. A raccontare questa storia fu, nel 1952, un periodico del PCI  bolognese “La lotta”. La notizia fu ripresa e ripetuta fino a che venne considerata una certezza storica. In realtà non era proprio una notizia vera, ma nemmeno del tutto falsa: era un pastiche di varie cose, alcune realmente accadute.

 

FOTO 4 palazzo del Triangle incendiato

 

Veramente ci fu un incendio in una camiceria di New York, ma nel 1911, come abbiamo già ricordato, e si trattava della ditta  Triangle Shirtwaist Company ( non di una fantomatica ditta Cotton),  che era stata al centro di una protesta  e di una imponente mobilitazione - durata ben 4 mesi - due anni prima, nel 1909. Ma al momento dello scoppio dell’incendio le molte operaie e i pochi operai  che ci lavoravano non erano in sciopero. Era il 25 marzo di quel 1911 e la fabbrica di camicie era alloggiata negli ultimi tre piani del palazzo di 10 piani chiamato Asch building o anche Triangle. L’incendio scoppiò all’ottavo piano e non fu di origine dolosa, seppure  assolutamente prevedibile: lo stanzone era infatti pieno di stoffe infiammabili, il pavimento di legno era coperto di ritagli di stoffa, l’illuminazione era a gas e molti degli uomini fumavano e per l’eventualità di un incendio c’erano solo dei secchi d’acqua.

 

 

 

 

FOTO 5 foto dell’atelier  FOTO 6 altra foto dell’atelier prima dell’incendio

 

Però è vero che i padroni della camiceria, Max Blanck e Isaac Harris, avevano chiuso dentro gli operai: avevano paura che rubassero delle stoffe, o che si allontanassero dal lavoro. E’ bene ricordare che quelle povere persone lavoravano in quell’ambiente per 12 e a volte 14 ore al giorno, tutti i giorni della settimana, esclusa la domenica, per un ammontare fra le 60 e le 72  ore settimanali. E che venivano pagate dai 6 ai 7 dollari la settimana.

Basta leggere il lungo elenco delle vittime per rendersi conto che erano nella maggior parte dei casi delle ragazze giovanissime fra i 16 e i 22 anni, ma c’erano anche persone di una età più matura e anche una signora di 48 anni. Si evince dai cognomi  che i morti erano in gran parte ragazze italiane ed ebree dell’est europeo: si tratta di 135 donne e 22 uomini, più 3 o 4 cognomi senza nome proprio e quindi non identificabili come genere, per un ammontare di 160 persone. Di queste 62 morirono buttandosi dalle finestre, quando si videro preclusa ogni via di fuga. Ci sono delle foto, alcune anche colorate ad acquerello, di quel terribile incendio e delle vittime, che fanno venire i brividi e che qui vi mostriamo, perché non si dimentichi mai quanto il lavoro un tempo fosse un ignobile e inumano sfruttamento di persone al limite della schiavitù e che non è un caso che in diverse lingue e dialetti il lavoro sia chiamato “travaglio”. Ed è anche utile, in questi tempi in cui la sinistra è confusa e alla ricerca di una identità, ricordare quanto ha contato la battaglia dei sindacati e delle organizzazioni socialiste perché il lavoro e i salari fossero portati a livelli umani e regolamentati da leggi dello stato e non dall’indole buona o cattiva dei “padroni”.  

A questo proposito è giusto aggiungere che in questo caso i padroni erano due gaglioffi: “ la Triangle Shirtwaist Company era diventata già famosa fuori dall'industria tessile prima del 1911: il massivo sciopero delle operaie tessili iniziato il 22 novembre 1909, conosciuto come protesta delle 20.000, iniziò come una protesta spontanea alla Triangle Company. La International Ladies' Garment Workers' Union negoziò un contratto collettivo di lavoro che copriva quasi tutti i lavoratori dopo uno sciopero di 4 mesi, ma la Triangle Shirtwaist rifiutò di firmare l'accordo.” Lo sfruttamento era selvaggio in quella ditta e la crudeltà di chiudere dentro la fabbrica chi ci lavorava, fu la causa principale di tutte quelle morti.

FOTO 7 i locali dopo l’incendio: si vede anche una macchina da cucire   Foto 7a i corpi delle donne precipitate dalle finestre

 

Quel terribile incendio e quelle morti inumane scossero il mondo intero e divennero il punto di partenza di rivendicazioni e di prese di coscienza non solo della classe operaia  ma anche dei cittadini in genere. “ L'evento ebbe una forte eco sociale e politica, a seguito della quale vennero varate nuove leggi sulla sicurezza sul lavoro e crebbero notevolmente le adesioni alla International Ladies' Garment Workers' Union, oggi uno dei più importanti sindacati degli Stati Uniti.” I funerali delle vittime videro una folla di oltre centomila persone, ma dal processo i due padroni, Max Blanck e Isaac Harris, non solo furono assolti ma ebbero un rimborso di 445 dollari per ogni morto, mentre le famiglie delle vittime ebbero 75 dollari.

 

FOTO 8 obitorio

L’8 marzo ricorda anche quel sacrificio, quelle morti ingiuste, che oggi vediamo rivivere nei ripetuti e troppi incidenti mortali sul lavoro, di cui sono piene le cronache. E gli extracomunitari che lavorano in nero e senza orario o tutela sindacale, senza assistenza medica e pensione e vivono ammucchiati in topaie pagate a prezzi assurdi, sono esposti allo stesso identico sfruttamento incivile e ignobile di quelle operaie e quegli operai morti nell’incendio della Triangle. Per questi extracomunitari è come se non fossero passati tutti questi anni, come se non ci fossero state tutte le conquiste della classe operaia, perché vivono come i proletari della fine dell’800. Sono i nuovi schiavi. Come i nostri giovani, abbandonati al precariato, sottopagati e in nero, che non avranno mai un lavoro sicuro e poi una pensione.

Davanti a tutte queste ingiustizie, diseguaglianze, sfruttamento e dolore, se la sinistra ha ancora dubbi su quale sia il suo ruolo e il suo posto, se ha ancora delle crisi di identità, allora è davvero finita.

 

Buon 8 marzo non solo a tutte le donne, ma a tutte le persone che vogliono cambiare il mondo.

 

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