Earth Day, ogni giorno

di Paolo Cacciari - comune-info.net - 23/04/2021
Il primo Earth Day fu una risposta dell’ambientalismo statunitense a un disastroso inquinamento da petrolio sulle spiagge della California, causato dalla rottura di un oleodotto. Centocinquant’anni dopo ci accorgiamo che la massa globale di plastica in circolazione nel mondo è doppia della massa complessiva di tutti gli animali viventi

Da cinquantun anni si celebra la giornata mondiale della Terra. Il primo Earth Day fu una risposta dell’ambientalismo nordamericano a un disastroso inquinamento da petrolio sulle spiagge di Santa Barbara in California causato dalla rottura di un oleodotto. Per iniziativa di un attivista pacifista, John McConnell, la proposta di celebrare “la bellezza e la vita della Terra” fu presentata all’Unesco e poi a Capitol Hill di Washington per merito del senatore Gaylord Nelson. Infine le Nazioni Unite, segretario U Thant, stabilì che fosse il 22 aprile, equinozio di primavera, la giornata ufficiale mondiale dedicata alla conservazione della Terra. Sono gli anni della “primavera ecologica” (Giorgio Nebbia), dell’inizio della presa di coscienza degli impatti ambientali provocati dalla industrializzazione a propulsione fossile e nucleare. Il primo summit sull’Ambiente umano organizzato dalle Nazioni Unite si tenne di lì a poco a Stoccolma nel 1972. Lo stesso anno verrà pubblicato il Rapporto sui limiti della crescita del Club di Roma. Da mezzo secolo, quindi, l’umanità “sviluppata” sa di aver imboccato una traiettoria suicida. Caos climatico e pandemie da zoonosi sono gli ultimi più evidenti sintomi di una rottura dei cicli vitali del pianeta, di quella “rete della vita” (Fritjof Capra) che lega tutti i fenomeni naturali secondo il principio della interconnessione e dell’interdipendenza.

Da tempo è in corso un biocidio: una distruzione deliberata, consapevole e pianificata delle specie viventi. L’ultimo rapporto Global Earth Outlook (GEO-6) pubblicato dall’Agenzia Ambientale dell’ONU, stima che il tasso di estinzione delle specie sta procedendo a un ritmo da 100 a 1000 volte più veloce dell’inerzia naturale e riguarda batteri, funghi, microrganismi eucarioti, piante e animali. Da quando esiste una classificazione delle specie animali ad oggi, le estinzioni documentate sono 765, di cui 79 mammiferi, 145 uccelli, 36 anfibi. Secondo la “lista rossa” dell’Unione internazionale per la conservazione della natura (IUCN) 1.199 mammiferi (il 26% delle specie descritte), 1.957 anfibi (41%), 1.373 uccelli (13%) e 993 insetti (0,5%) sono minacciati di estinzione. Così come il 42% degli invertebrati terrestri, il 34% degli invertebrati di acqua dolce e il 25% degli invertebrati marini sono considerati a rischio di estinzione. La causa principale è la distruzione degli habitat naturali che procede non solo nelle foreste primarie e in lontani luoghi esotici incontaminati. In Italia, ad esempio, l’Ispra documenta che le specie animali minacciate di estinzione sono 161 (138 terrestri e 23 marine), pari al 28% delle specie valutate.

La correlazione tra distruzione della biodiversità e malattie di origine zoonotica è conosciuta. Le creature multicellulari – e noi siamo tra queste – vivono in associazione con i loro microbi. Ci avvertono i virologi: “Perturbare gli ecosistemi è come spingere i virus più pericolosi a fare il salto di specie.” Scrivono Liotta e Clemeneti in La rivolta della natura (La nave di Teseo, 2020):

“Negli ecosistemi degradati gli agenti patogeni si adattano alle poche specie selvatiche rimaste e riescono a fare più facilmente il salto da un pipistrello o da un roditore a noi. Nelle aree inquinate i microrganismi trovano autostrade spianate per insediarsi e moltiplicarsi”.

Da queste evidenze scientifiche ci si aspetterebbe che i decisori politici prendessero delle iniziative di prevenzione primaria: fermare il consumo di suolo, l’estrazione di materie prime e la distruzione degli ecosistemi. Esattamente come indica quest’anno il sottotitolo della Giornata della Terra: Restore Our Earth. Ma per guarire occorre estirpare il male alla radice. Non basta mitigare gli impatti ambientali più dannosi, né è possibile pensare di adattare la vita a condizioni sempre peggiori. Anche la “resilienza” ha un limite. Questo dovrebbe averci insegnato la “sindemia”. Ovvero il concorso di cause patogene, ambientali e sociali che hanno portato le persone più fragili, più esposte ad inquinamenti e più povere a pagare le conseguenze peggiori della pandemia Covid-19. La Review dell’economista ambientale Partha Sarathi Dasgupta, commissionata dal Cancelliere dello Scacchiere del Regno unito, si chiude con un invito: “Lasciate in pace la natura in modo che possa prosperare” (The Economics of Biodidersity, 2021).

Tutte le strategie intentate fin’ora per creare un mondo socialmente giusto ed ecologicamente sicuro hanno dato esiti fallimentari. “Sviluppo sostenibile”, “economia verde”, “economia circolare” ed ora “transizione ecologica” hanno un difetto sostanziale: si affidano fideisticamente alle innovazioni tecnologiche e al mercato, mentre si disinteressano dell’essenziale: la percezione della relazione solidale che lega ogni essere umano agli altri esseri viventi e al mondo. Scriveva il filosofo Edgar Morin: “Abbiamo bisogno di una bio-antropologia, di una ecologia generalizzata” (L’anno dell’era ecologica, 2007). Un concetto molto simile alla “ecologia integrale” di papa Bergoglio (Laudato si’, 2015). Non è possibile mettere d’accordo il desiderio delle popolazioni umane di una incessante crescita dei beni disponibili con il mantenimento di un equilibrio ecologico. Il difetto delle soluzioni di mercato è pensare che si possano scambiare cose di natura diversa: le risorse naturali non sono merce, nemmeno se le ribattezziamo “capitale naturale” e se diamo un prezzo ai “servizi ecosistemici” che la natura gentilmente e gratuitamente ci offre: l’acqua potabile, l’aria pulita, il suolo fertile, la fotosintesi clorofilliana, l’impollinazione degli insetti, la luce del sole, ecc. Una tonnellata di CO2 viene scambiata attualmente a 40 euro tra imprese che a loro volta hanno comprato i permessi ad inquinare all’asta dagli stati. Il Gestore dei servizi energetici italiani, ad esempio, ha collocato sulla piattaforma European Energy Exchange autorizzazioni ad emettere due milioni di quote di CO2 ricavando 16 milioni di euro. Un meccanismo dove tutti ci guadagnano, imprese e stati, ad eccezione della qualità dell’aria! Con le riserve idriche si gioca in Borsa. Sulle sementi si impongono brevetti e diritti di proprietà. Le foreste vengono usate per compensare i “crediti di carbonio”. Ma i patrimoni naturali hanno un valore d’uso in sé, incommensurabile e non intercambiabile con il denaro, se non immaginando il loro uso esclusivo e la loro progressiva scomparsa; se non rendendoli scarsi e preziosi.

Nemmeno l’affidamento alle nuove tecnologie ci salverà dal collasso ecologico. La fame di acciaio, cemento, alluminio, carta, vetro, materiali sintetici… non si ferma. La “dematerializzazione” dei cicli produttivi è una chimera: marciamo a 100 miliardi di tonnellate all’anno di materiali vergini estratti dalla Terra. La guerra per l’accaparramento delle “terre rare” (metalli indispensabili per fabbricare i dispositivi elettronici) ci dice quanto sia pesante la pressione sulle matrici naturali esercitata dalle nuove tecnologie. Auto elettriche comprese. Non ci viene in aiuto nemmeno l’“economia circolare”. L’ultimo rapporto (The Circlularity Gap 2021 Report) ci dice che l’economia mondiale recupera e ricicla solo l’8,6% di materiali, addirittura in peggioramento sull’anno precedente (9,1% nel 2019). Nessun decoupling è in atto.

Una ulteriore conferma del sovrautilizzo delle risorse naturali emerge dalla crescita inaudita dei flussi di materiali impiegati dal sistema economico, come documentato da una singolare ricerca che Nature ha pubblicato lo scorso dicembre (Emily ElhachamLiad Ben-UriJonathan GrozovskiYinon M. Bar-On & Ron Milo, Global human-made mass exceeds all living biomass, Nature, volume 588, pages 442–444, 2020). Si stima che dall’anno scorso la “massa antropogenica” costituita dagli stock di materiali solidi incorporati e accumulati negli oggetti prodotti dagli esseri umani (edifici, strade, macchinari, oggetti di consumo e così via) ancora in uso abbia oramai superato in “peso secco” (esclusa l’acqua) il volume della biomassa vivente animale e vegetale globale complessiva. La produzione della “massa antropogenica” ha ormai raggiunto le 30 Gigatonnellate all’anno che è come se ogni persona impegnasse ogni settimana una quantità di materiali (calcestruzzo, inerti, mattoni, asfalto, metalli, legno, ecc.) pari al proprio peso corporeo. Ad esempio, per avere un’idea, la massa globale di plastica in circolazione (8Gt) è doppia della massa complessiva di tutti gli animali marini e terrestri viventi (4Gt). Oppure, che edifici e infrastrutture (1.100 Gt) superano la massa di tutti gli alberi e gli arbusti esistenti sulla faccia della Terra (900 Gt). Inutile dire che l’accelerazione si è verificata a partire dagli anni Sessanta, con un raddoppio di velocità nell’ultimo ventennio.

La verità è che la crescita del Pil si “tira dietro” l’aumento dello sfruttamento delle risorse naturali. La logica economica del profitto non ammette limiti: investire denaro per creare più denaro per investire più denaro.

È indispensabile invertire questa tendenza autodistruttiva. Ha scritto Vandana Shiva: “La pandemia non è una guerra, è la conseguenza della guerra contro la vita”. Non è nemmeno un incidente biologico. È il boomerang che ci torna indietro. Il grande organismo vivente, Gaia, Madre Terra reagisce al male subito cercando di immunizzarsi.

Che fare? Prendere coscienza dei limiti planetari che determinano le condizioni della vita sulla Terra e riconoscere i diritti della natura, consustanziali a quelli di ogni essere vivente, umani compresi. Il nuovo presidente degli Stati Uniti riunirà vari capi di stato in occasione della Giornata della Terra. Suggeriamo una buona azione per iniziare: l’istituzione di una Corte di giustizia per i diritti della natura.

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