La Transizione non ecologica e la cultura grigia

di Danilo Selvaggi - Direttore generale della Lipu - lipu.it - 29/04/2021
Il carattere del Recovery Plan italiano è completamente antropocenico, tutto ispirato alla filosofia della presenza, dell’aumento, del più: più energia, più infrastrutture, più costruzioni. Dobbiamo ancora perforare montagne, cementificare fiumi, gettare grandi distese di metalli sui terreni agricoli e naturali. Produrre, produrre.

La filosofia dell’aumento significa che mai ne avremo abbastanza e che dunque, a un certo punto della storia, ci sarà il bisogno di un nuovo Piano di Ripresa. Un Piano che il Presidente del Consiglio e il Ministro della Transizione ecologica di turno commenteranno così: “Ci aiuterà a crescere”.

Non esistono solo le infrastrutture grigie: esiste la cultura grigia, che precede le infrastrutture grigie e le produce. Cultura grigia è la cultura secondo cui soltanto dove c’è umanità c’è valore. In assenza di umanità, è come se mancasse il quid. Dunque bisogna occupare territorio (cultura grigia) anziché capire come disoccuparlo e riorganizzarci (cultura verde).

La cultura grigia commette il doppio errore di leggere male la realtà, in dissociazione con la scienza, e di programmare male il futuro, in dissociazione con le nuove necessità sociopolitiche, che devono fare i conti con i limiti del pianeta, con il resto del vivente, con la necessità di una pacificazione umanità-natura.

Cioè, una pacificazione dell’inquilino con la propria casa.

E’ un errore che poteva essere commesso agli inizi del Novecento, quando sussisteva l’alibi di una filosofia e una scienza ambientaliste assenti o troppo giovani. Non oggi. Non dopo i tanti punti di svolta della storia e le consapevolezze tecniche che abbiamo.

Commettere oggi questo errore è un fatal error.

Data la cultura grigia che generalmente lo ha ispirato, il Recovery Plan italiano non poteva che produrre risposte solo tecnologiche alla crisi climatica e partorire, sul fronte dell’impegno naturalistico, un topolino. Anzi, un topolino Ogm.

L’infografica qui di seguito compara gli interventi previsti dal Recovery Plan con gli obiettivi della Strategia europea per la Biodiversità. Il rapporto è demoralizzante. L’Italia ha cancellato la natura dai suoi programmi. Rete Natura 2000 non esiste. L’estensione delle aree protette non c’è. Il restauro degli habitat è limitato a un solo genere, pur importante, di intervento (fondali marini). L’agroecologia è una chimera, sostituita dalla tecnoagricoltura. Corridoi ecologici, ripristino delle specie, riduzione del consumo di suolo: zero.

Meglio: zero virgola cinque, che è all’incirca la percentuale realmente destinata dal Piano alla biodiversità. Tanto vale la natura per l’Italia del futuro. Uno 0,5.

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Nello specifico, alla conservazione della biodiversità (inclusa la digitalizzazione dei parchi!) sono destinati investimenti per 1,19 miliardi, pari allo 0,51% alle risorse complessive di PNRR, React e Fondo complementare. Anche volendo includere in queste quote attività del tutto incongrue come quelle per i giardini storici e le Green comunities, lo stanziamento sale di uno o due decimali.

Per fare un un esempio, la Spagna dedica alle opere di “Conservation and restoration of ecosystems and biodiversity” la cifra di euro 1,642 miliardi su euro 69,528 miliardi del suo Fondo, che corrisponde al 2,36% delle risorse totali. Cioè, una quota proporzionalmente fino a 5 volte superiore a quella italiana, oltre che mirata su azioni fortemente strategiche.

Come se non bastasse, a tutto ciò si aggiungerà lo svuotamento dei cassetti ministeriali e regionali colmi di vecchi e nuovi progetti, spinti dal Decreto Semplificazioni che “alleggerirà” la normativa di tutela e su cui il Presidente Draghi punta tutto. Tradotto: strade, impianti sciistici, trafori, danni a siti e habitat, altro suolo mangiato, impianti di energie rinnovabili realizzati senza pianificazione generale. Altro che principio del “non danno significativo”!

Le numerose violazioni sostanziali (delle intenzioni del Recovery Plan europeo) e formali (delle condizioni poste dall’Europa per l’utilizzo dei fondi) devono comportare l’intervento della Commissione europea affinché almeno una parte degli errori sia corretta prima che il Piano italiano (ci saranno quasi due mesi di tempo) venga approvato.

E’ quello che cercheremo di ottenere, trasmettendo alla Commissione europea i nostri dettagliati dossier e chiedendo fino alla fine al Presidente Draghi e al Ministro Cingolani di ripensarci.

Nessuno è così ingenuo da illudersi che il mondo cambi da un giorno all’altro e che una qualsiasi transizione ecologica possa portarci nel paradiso dell’ecologia in men che non si dica. Bisogna fare i conti con la realtà e con gli spaventosi ritardi ecologici accumulati. E’ un lavoro molto lungo e faticoso, di programmi, confronto, politica, società, scienza.

E tuttavia, il problema non è quando arriviamo ma se e dove arriviamo. Il problema è che la strada intrapresa è figlia di una transizione non ecologica e della solita, vecchia cultura grigia.

E’ una strada sbagliata. Questo è il grande problema. Siamo in transizione ma nella direzione errata. Non abbiamo cambiato strada. Dobbiamo cambiare strada.

 

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