Cancellare la riforma Nordio per difendere la democrazia costituzionale, ma serve partecipazione dal basso

di Carlo Di Marco - strisciarossa.it - 25/09/2025
Indurre la sinistra a maggiore coraggio affinché “facendo sinistra” punti a recuperare quel mare di consensi che oggi non si esprimono neanche ai referendum, sono punti irrinunciabili per una svolta nel Paese senza la quale l’autoritarismo non troverà più ostacoli.

Per quanto a Montecitorio le forze della maggioranza abbiano esultato per il terzo voto favorevole alla riforma Nordio, manca ancora qualche pezzo piuttosto importante. Per saltare di gioia, infatti, io aspetterei che questi pezzi arrivino e si compongano. Non è che manchi qualcosa di irrilevante: mancano l’ultimo voto al Senato e il Referendum popolare previsto dall’art. 138 della Costituzione.

Velocemente, un paio di considerazioni su questi due pezzi mancanti. La prima: il voto al Senato deve essere espresso sullo stesso testo appena approvato alla Camera dei deputati e deve ottenere almeno la maggioranza assoluta dell’Aula, cioè il 50% più uno dei componenti. Si tratta di un passaggio necessario e irrinunciabile. Non si arriverà alla soglia della maggioranza qualificata (2/3) come non ci si è arrivati alla Camera dei deputati e il Governo l’ha sempre saputo. Al punto che sin da subito (dalla presentazione del ddl costituzionale) Nordio aveva contrabbandato questa consapevolezza con il desiderio (falso) di essere lui a volere il referendum – lo feci notare in un articolo su questo giornale nel gennaio scorso  – come se il Governo Meloni fosse diventato all’improvviso alfiere della democrazia diretta.

 Nordio in quella occasione tentò di confondere un po’ le carte perché sapeva che il referendum sarebbe stato (sarà) senz’altro chiesto. E qui arriva la mia seconda considerazione: sapendo (Nordio) che il referendum popolare di cui all’art. 138 Cost. non è automatico perché per svolgersi deve essere chiesto da almeno 500 mila elettori, o da un quinto dei parlamentari o da cinque consigli regionali, il modo migliore per apparire democratico era quello di far leva sull’ignoranza generalizzata di questi meccanismi e apparire squallidamente come in effetti non è. In realtà, la nostra Costituzione, come avverte Massimo Villone in un incisivo articolo sul Fatto quotidiano del 20 settembre 2025, è “troppo facilmente emendabile” per via della “eventualità” del referendum popolare ex art. 138 Cost., ma anche per via della sua “svuotabilità” sostanziale: a Costituzione invariata, infatti, basta un sistema elettorale come quello in vigore per creare un Parlamento “esecutore” del Governo. Senza parlare poi della legge elettorale che ha in mente la Meloni.

Su questi aspetti che afferiscono alla conoscenza degli strumenti di democrazia diretta, come è noto, si manifestano i bisogni di chiarezza e di consapevolezza popolari colpevolmente ignorati dal potere politico e dalla maggioranza dei partiti. Ma è proprio su equivoci e bugie che poggia la demagogia dei governanti in malafede. Il referendum popolare di cui all’art. 138 Cost., non è una concessione del Governo, ma non è neanche obbligatorio o automatico perché per svolgersi deve essere richiesto, e ciò può avvenire nel caso la seconda deliberazione non sia stata votata dai 2/3 del Parlamento; non è un referendum “consultivo” perché attraverso di esso il corpo elettorale non esprime un parere ma decide se una legge costituzionale di revisione possa o meno entrare in vigore; non è un referendum “confermativo”: si usa questo termine quasi a suggerire che la conferma della legge di revisione sia la norma, mentre conferma o respingimento sono possibilità pariordinate. Negli ultimi trent’anni, infatti, questi referendum hanno alternativamente confermato o respinto leggi costituzionali di revisione.

Non ci vuole molto a definire correttamente tale strumento di democrazia diretta come lo definisce l’art. 138 Cost: referendum popolare. Tutto diventerebbe più facile e più chiaro.

“Non politicizzare il referendum”

Un altro profilo di grande rilevanza nel quadro della comprensione e della conoscenza dei fenomeni costituzionali, attiene alla cosiddetta “politicizzazione” dei referendum. Il loro esito sarebbe condizionato dalla maggiore o minore politicizzazione impressa dai promotori a questi strumenti di democrazia. È una colossale furbata: si è spesso ripetuto, ad esempio, che la revisione costituzionale proposta dal Governo Renzi sarebbe stata respinta dagli elettori perché quella campagna referendaria era stata “politicizzata” contro Renzi e il suo Governo. E questo viene presentato tutt’ora come un fatto sleale e illecito.

Ebbene, anche qui, affinché le persone sappiano di cosa si parla senza cadere nell’equivoco della demagogia di potere (si badi: vale sempre e per tutti, anche per quei parolai “di sinistra” che ancora vorrebbero spiegare così la sconfitta di Renzi del 2016), va detto che non esistono referendum a-politici. Non lo sono quelli abrogativi, né quelli popolari sulle leggi di revisione costituzionale. In entrambi i casi, infatti, si chiama alle urne il corpo elettorale (che rappresenta il popolo sovrano) per decidere l’abrogazione di una legge (o parti di essa), ovvero, la conferma/respingimento di una legge di revisione costituzionale. Ciò che rileva è che entrambe sono leggi: atti politici per eccellenza; espressi dal Parlamento secondo procedimenti tipici nei quali si esplica una voluntas derivante dall’indirizzo politico di cui il Governo è titolare.

Non solo, ma accade che la maggioranza di Governo che esprime quella volontà politica poi negata o accolta nel referendum sia formata da uomini, partiti, gruppi politici riconoscibili. Non sono ectoplasmi, si chiamano per nome e cognome; gli atti legislativi (agire politico) in questione sono sempre imputabili a quella maggioranza decidente, a quel Governo che ha un Presidente del Consiglio responsabile dell’indirizzo politico. Semmai, essi dovrebbero trarre democraticamente delle conseguenze nell’uno o nell’altro senso a seguito del pronunciamento del Sovrano che si è espresso per mezzo degli elettori. Senza arrabbiarsi: dovrebbero essere felici di farsi facilitatori di democrazia e partecipazione.

Eppure Nordio chiede di non politicizzare il Referendum che suo malgrado si svolgerà in primavera 2026. E anche qui Villone docet: “Il tempestoso voto alla Camera ci dice quanto sia vuota di senso la richiesta di Nordio di non politicizzare il referendum. Nel contesto in cui si voterà, non si potrà ridurne l’oggetto a una banale questione di carriera. Sarà in gioco non già la sorte di qualche migliaio di magistrati, ma il futuro del Paese come democrazia liberale” (ibid.). Ciò che Nordio afferma sulla stampa – “che non si politicizzi, che non diventi un referendum a favore o contro il governo, o il Parlamento, o la maggioranza. Che si squadernino in modo civile, i pro e i contro” (Repubblica 19 sett.) – mostra senza dubbio il timore di questo Governo; un timore che si rileva anche nella sollevazione dei toni dello scontro politico per “convincere quegli elettori conservatori attualmente perplessi dall’idea di stravolgere un pilastro liberale come l’indipendenza della magistratura”. Al mercato alzare la voce per vendere di più conviene spesso.

Perdere questo Referendum per il Governo sarebbe una grande sconfitta: il premierato è un po’ fermo perché tanto si può fare con una legge elettorale liberticida; l’autonomia differenziata è ferma perché la Corte costituzionale si è espressa in maniera inequivocabile, resta l’obbrobrio della separazione delle carriere che però per il Governo non sembra affatto una passeggiata.

Oggi più che mai, intensificare la presenza partecipativa dal basso insieme alle grandi organizzazioni delle lavoratrici e dei lavoratori, delle studentesse e degli studenti che in questi mesi stanno dando prova di grande coraggio sui temi della pace contro il genocidio del popolo palestinese; operare per un logico e conseguente collegamento con la difesa della democrazia costituzionale derivata dalla Resistenza partigiana contro il nazifascismo responsabile del genocidio contro gli ebrei, i diversi, gli oppositori politici; indurre la sinistra a maggiore coraggio affinché “facendo sinistra” punti a recuperare quel mare di consensi che oggi non si esprimono neanche ai referendum, sono punti irrinunciabili per una svolta nel Paese senza la quale l’autoritarismo non troverà più ostacoli.

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