Mentre a Gaza e in Cisgiordania i civili continuano a morire per qualsiasi cosa, ad essere giustiziati, anche se disarmati e con le mani in alto, dall’esercito israeliano che controlla ancora buona parte della Striscia, l’attenzione è tutta su Israele. Precisamente, sul premier Benjamin Netanyahu. Ad occupare maggiormente le cronache, ultimamente, sono i suoi problemi con la giustizia, più nello specifico il processo nel quale deve difendersi dalle accuse di corruzione e frode. Un processo che si trascina da tempo e che il premier israeliano ha cercato di rinviare il più possibile, puntando anche su “cause di forza maggiore”, come quel genocidio in Palestina che lui, insieme alla sua cricca di ministri, generali e complici, insiste nel presentare con la falsa definizione di “guerra”. In questa vicenda giudiziaria, spicca la recente richiesta di grazia che lo stesso Netanyahu ha rivolto al presidente israeliano Herzog, La ragione addotta è quella di poter continuare a lavorare “per il bene del Paese” e di evitare che il popolo possa essere diviso da un processo “che potrebbe anche influenzare le scelte politiche”.
Una imbarazzante ragione di facciata per nascondere il tratto che accomuna Netanyahu a tanti altri sanguinari personaggi della storia del mondo: la codardia. L’uomo feroce che ha calpestato i diritti umani, sfuggendo, grazie alla protezione di USA e altri complici, all’arresto per crimini di guerra e contro l’umanità ordinato dalla Corte penale internazionale, adesso teme di perdere il suo potere in patria. Ora che Gaza è stata schiacciata e si prepara a divenire il banchetto di una nuova alleanza neocoloniale, il premier israeliano teme di essere cacciato via dal suo trono. Ecco perché teme di farsi processare, ecco perché non vuole rischiare che qualche giudice possa costringerlo a dimettersi e a rinunciare al suo ruolo. E allora, il truce e codardo autore del massacro dei palestinesi preferisce implorare la grazia, utilizzando anche l’appoggio di Donald Trump, l’uomo con il quale ha pianificato il disegno affaristico da realizzare sulle macerie di Gaza.
Ma non è tutto, perché in realtà c’è anche un’altra vicenda che preoccupa Netanyahu e il suo governo. Un’altra questione che lo riguarda e che, peraltro, metterebbe ulteriormente in discussione la già demolita immagine della presunta democrazia israeliana, quella che, da qualcuno, viene indebitamente definita “l’unica democrazia del Medio Oriente”. Si tratta delle polemiche interne relative alle responsabilità del governo d’Israele su quanto accaduto il 7 ottobre 2023, giorno dell’attentato rivendicato da Hamas e costato la vita a 1200 civili, oltre che il rapimento di altre 250 persone. Una data spartiacque, perché quel massacro è stato considerato la causa scatenante di quella risposta israeliana, giustificata con la legittima difesa di uno Stato e subito trasformatasi in un genocidio, con la cancellazione di Gaza e di altre città della Striscia e con l’eliminazione scientifica di oltre 70mila persone.
Il genocidio, quello ad alta intensità, che il governo israeliano ha perpetrato per due anni e che, oggi, grazie alla finta pace siglata insieme a USA e Hamas, continua a compiersi, come prima del 7 ottobre, nella forma definita “a bassa intensità”, tramite l’occupazione, le violenze dei coloni, le esecuzioni sommarie da parte dei soldati dell’Idf, i droni, i soprusi, le torture, il carcere, l’embargo, il controllo delle risorse, la fame, l’assenza di quelle infrastrutture distrutte, con calcolo, dalla strategia di aggressione del governo di Gerusalemme. Ma cosa è accaduto il 7 ottobre 2023? Come è stato possibile che un confine militarizzato, controllato da uno degli eserciti più attrezzati e tecnologici al mondo, in un Paese con il servizio di intelligence (Mossad) più preparato al mondo, sia stato attraversato, in poche ore, dai mezzi e dai miliziani di Hamas, in migliaia, armati e pronti a eseguire il proprio piano terroristico?
Perché il governo ha ignorato i messaggi di chi, due mesi prima del 7 ottobre, aveva avvisato di una possibile e massiccia operazione di Hamas in quell’area? Perché la gran parte delle truppe di stanza in zona venne inviata altrove? Perché più di mille soldati furono mandati in licenza? Perché ai battaglioni rimasti in zona venne detto, come hanno testimoniato alcuni soldati dell’Idf, di allentare il controllo e di allontanarsi dalle torrette poco prima dell’attacco? Queste sono solo alcune delle domande che in molti, in Israele (e non solo), hanno posto e pongono. E non le pongono solo gli oppositori dell’attuale governo, ma anche analisti, giornalisti, militari, familiari delle vittime. Domande che aumentano con il trascorrere del tempo, man mano che le anomalie diventano sempre più inspiegabili e nutrono i già numerosi dubbi su quanto accaduto il 7 ottobre. E, naturalmente, alimentano il sospetto che, alla fine, quel massacro era proprio quello che serviva al governo israeliano, in quel momento in crisi di consensi, per coagulare attorno a sé i sentimenti di indignazione del popolo nei confronti della “minaccia esterna”, di quel nemico presentato non solo come un gruppo terroristico ma come l’emblema di un intero popolo.
Un popolo sul quale, peraltro, si era già ampiamente compiuto, grazie all’occupazione e all’apartheid, un processo di disumanizzazione funzionale a far accettare agli israeliani qualsiasi soluzione, anche quella che ne prevedeva la cancellazione, a partire dai bambini in fasce. A quelle domande, che in Israele diventano sempre più pressanti, non per pietà verso i palestinesi, ma per giustizia interna e rivalsa nei confronti del governo d’Israele, Netanyahu pone il suo rifiuto, negando qualsiasi responsabilità. Non risponde e anzi lavora per evitare che venga istituita la Commissione statale d’inchiesta, che fra tutte quelle ammesse dalla legge israeliana è la più importante e dispone di poteri simili a quelli di un tribunale. Essa, infatti, è presieduta da un giudice della Corte Suprema che ne nomina i membri. Una soluzione che fa paura al premier israeliano, il quale, dopo aver tergiversato a lungo, nonostante i richiami istituzionali, ha annunciato la creazione di un gruppo formato dai ministri del suo governo, tra i quali i violenti estremisti Ben Gvir e Smotrich, che avrà il compito di definire modi e tempi dell’indagine, per poi istituire una commissione governativa.
In poche parole, la soluzione di Netanyahu è quella di far indagare se stesso e il suo governo dal…suo governo. Quello autore di un genocidio e guidato da un premier accusato di essere un criminale di guerra. Davvero un esempio lampante di come funziona la cosiddetta “unica democrazia del Medio Oriente”. Una “democrazia” che ha consentito al governo Netanyahu di massacrare decine di migliaia di civili, un massacro che si è rivelato molto utile al premier e ai suoi ministri, sia per poter stappare le brame affaristiche su Gaza e politiche sulla Striscia, sia per poter ritardare i processi e il rischio di incriminazione e di dimissioni, dunque di perdita del potere. Anche in nome di questi interessi privati, Israele ha costruito scientificamente l’aggressione finale a Gaza. Che è stata preparata prima del 7 ottobre, come potrebbero rivelare le risposte a quelle domande dalle quali il governo Netanyahu prova a sottrarsi con l’inganno.
Massimiliano Perna -ilmegafono.org


