“Libertà è partecipazione”, così cantava Giorgio Gaber nel 1972, nel suo celebre brano La libertà. Partecipazione che, in Italia, è ormai sempre più ridotta, come dimostra l’affluenza scarsa e costantemente in calo che si registra a ogni tornata elettorale. E come si è verificato anche in occasione del recentissimo referendum abrogativo. Com’era prevedibile, il quorum di almeno il 50% degli aventi diritto, necessario a convalidare il voto, non è stato raggiunto, con grande gioia del governo Meloni e delle forze di destra. Un esito scontato, che però viene cavalcato come un trionfo da chi ha scelto l’invito all’astensionismo, ma anche da quelle parti del centrosinistra che ritenevano sbagliata la campagna a sostegno del referendum promosso dalla CGIL. I mugugni, le critiche interne, le rivendicazioni dei centristi e dei moderati non hanno tardato ad emergere, così come le esultanze puerili e perfino le richieste surreali delle forze di maggioranza. C’è chi ha chiesto, infatti, le dimissioni del segretario generale della CGIL, Landini, e addirittura della segretaria del PD, Elly Schlein, rea di avere appoggiato il referendum.
Ovviamente, non è mancato nemmeno chi ha pensato subito di approfittarne per proporre una riforma dello strumento referendario, con l’aumento, da 500mila a un milione, del numero di firme necessarie per indire il referendum. Insomma, il solito triste e prevedibile schema del dibattito politico italiano, incapace di stupire in positivo, di portare la questione al di fuori della cortina e degli interessi del potere, ma soprattutto incapace di rispettare uno strumento di democrazia a disposizione della cittadinanza. Democrazia, appunto, è proprio questo il tema che dovrebbe rilevare nelle analisi post voto. E insieme ad esso quello di un altro principio inossidabile, vale a dire la verità. Perché se c’è qualcosa che questa campagna referendaria, malconcia e soffocata, ha sottolineato, è proprio l’allergia di questo Paese e delle sue istituzioni nei confronti della democrazia. Un’allergia alla quale si aggiunge una patologica carenza di verità e di riflessione critica.
Il comportamento del governo e dei partiti che lo compongono, in questi mesi e, ancor più nelle ultime settimane, è stato inaccettabile. Per carità, sappiamo bene che l’invito a non votare, ad astenersi, nelle consultazioni che richiedono un quorum, non è una novità, e sappiamo che non esistono forze politiche che, su questo aspetto, possano assumere una supremazia morale. Al netto, però, delle differenze nei toni e nei modi. Perché difficilmente si è raggiunta volgarità osservata in certe recenti “comunicazioni”, come ad esempio le provocatorie foto al mare di qualche senatore o l’imbarazzante e patetico post pubblicato da Forza Italia l’8 giugno, con tanto di grafica realizzata attraverso l’AI e un eloquente lapsus che confonde la piscina (evidentemente più avvezza alle abitudini e ai redditi dei forzisti) con il mare. Ma se è già grave, seppur non inedito, che questo tipo di invito provenga da un partito, è del tutto inaccettabile che siano le istituzioni a promuovere l’astensionismo.
Se, infatti, la politica fa il suo gioco, sporco o pulito che sia, non è in alcun modo ammissibile che a quel gioco si prestino anche le istituzioni della Repubblica. Non è ammissibile che un presidente del Senato e una premier facciano propaganda a favore del non voto, che si mettano a deridere uno strumento di democrazia popolare costituzionalmente garantito come il referendum e che si lascino andare a dichiarazioni ridicole (“vado a votare ma non ritiro la scheda”, Meloni dixit). A ciò si aggiunga poi un altro capitolo, altrettanto importante, che dà il segno di quello che è diventato il nostro Paese: l’atteggiamento della stampa e, in particolare, del servizio pubblico. Per mesi l’appuntamento referendario è stato ignorato, nascosto. Per mesi non si è spiegato a cosa facessero riferimento i quesiti, al tema o ai promotori è stato concesso poco spazio, al punto che AGCOM ha dovuto chiedere pubblicamente che venisse garantito. Alla fine, e solo dopo queste sollecitazioni, un lieve aumento nella copertura del tema si è registrato, ma solo dopo il 9 aprile (leggi qui).
Ancora una volta, dunque, la stampa italiana, in buona parte, ha scelto di lavorare non per quel fondamentale ruolo di informazione nei confronti dei cittadini, ma al servizio dei propri riferimenti politici e dei loro orientamenti. Ad “eccellere” in questa opera meritoria, è stato anche il servizio pubblico, ormai quasi interamente nelle mani del governo. Naturalmente, tutto ciò si riflette poi su una cittadinanza sempre più disinteressata, sempre più obbediente, disposta a vincolare le proprie scelte sull’esercizio di un diritto come quello di voto alle indicazioni di questo o quell’esponente politico o di uno o una opinion leader o giornalista di area. Molti non hanno nemmeno compreso che i quesiti riguardavano tutti noi, il lavoro, i nostri diritti, i diritti di chi lavora con noi o ha i figli che vivono, giocano, studiano accanto ai nostri figli e nipoti. Le maggiori tutele dei lavoratori, la responsabilità (e quindi la maggiore trasparenza) nei lavori in appalto, la sicurezza nel mondo del lavoro, la cittadinanza da riconoscere a chi già di fatto è cittadino, ma non gode di eguali diritti, sono tutti temi che dovrebbero travalicare le appartenenze politiche. E invece, a quanto pare, non è così. L’obbedienza alla propaganda è più forte dell’interesse collettivo.
Se poi fotografiamo il Paese e andiamo ad analizzare nel dettaglio il voto espresso da quel 30% che si è recato alle urne (quasi 15 milioni di persone, non poche), ci accorgiamo che sul lavoro e su quelle tutele che il Jobs Act di Renzi ha martellato, la gente, il Paese reale, quello che evidentemente la politica non considera, ha votato Sì praticamente in massa. Mentre sulla cittadinanza, il Sì ha vinto con meno margine, segno purtroppo di un’Italia sempre più razzista e feroce, nella quale anni di propaganda contro gli stranieri, di paure indotte e menzogne, hanno inquinato le coscienze.
Ma detto questo, arriviamo all’altro tema, quello della verità. Che dovrebbe guidare l’analisi di questo referendum e andare oltre la questione del quorum. Un’analisi che, ad esempio, è ben lontana dalle parole post voto di Matteo Renzi, padre del Jobs Act, che ha parlato di flop a causa di “quesiti ideologici”, ignorando la caterva di Sì che testimoniano la contrarietà dei cittadini e dei lavoratori all’impianto della sua pessima riforma del lavoro, che ha creato più precarietà e ridotto le tutele. Così come l’analisi del post voto dovrebbe parlare in maniera sincera delle ragioni di questo risultato, che, oltre nell’ostruzionismo di governo e mass media, risiedono anche in un fatto che è accaduto in questi mesi. Ci si riferisce, nello specifico, alla dichiarazione di inammissibilità, da parte della Corte Costituzionale, del quesito sull’autonomia differenziata, che era quello più centrale, quello che avrebbe dovuto trainare questa iniziativa referendaria, e che avrebbe sicuramente coinvolto la popolazione, perché più immediato da comprendere, più sentito dalle istituzioni locali e politicamente più trasversale.
La bocciatura del quesito ha azzoppato la campagna referendaria, indebolendola. Anche questa è una delle concause importanti necessarie a spiegare davvero quello che è accaduto. E sono motivazioni sulle quali riflettere e che andrebbero sottolineate nei commenti ex post, che invece si sono subito trasferiti sul terreno dello scontro tra partiti e leader, delle rivendicazioni e delle rese dei conti. Un terreno acido e sterile, che coinvolge gli interessi di parte e non quelli del Paese e degli elettori, inclusa quella ampia fetta di quei quasi 15 milioni che si sono recati alle urne per chiedere che le norme che regolano il mondo del lavoro e la cittadinanza vengano riviste. “La libertà è partecipazione”, si diceva. Evidentemente, nell’Italia dell’anno 2025 difettiamo di entrambe.
Massimiliano Perna -ilmegafono.org